Ambiente

La startup che crea bioplastica dal latte scaduto

“Splastica” sfrutta i polimeri naturali per realizzare un’alternativa sostenibile al derivato del petrolio. Il progetto, che continua a ricevere riconoscimenti anche internazionali, è diventato un’impresa a guida femminile che sarà finanziata da Women TechEu
Riccardo Liguori
Riccardo Liguori giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
27 marzo 2022 Aggiornato alle 17:00

Splastica. Un’alternativa sostenibile, biodegradabile e compostabile, rispetto al derivato del petrolio, ricavata a partire da rifiuti alimentari. Che diventano così risorse.

Tutto questo, con il triplice beneficio di disporre di una materia prima a costo zero, recuperare le eccedenze del food non più edibili e ridurre i costi di smaltimenti di rifiuti delle aziende.

«Abbiamo voluto dar vita a questo progetto pensando al futuro», racconta alla Svolta Emanuela Gatto. Professoressa del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Chimiche dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, in virtù della sua professione di scienziata, Emanuela ha avuto la possibilità, all’interno dei laboratori universitari, di maneggiare polimeri naturali. Macromolecole, come cellulosa o amido, presenti e sintetizzate dalla natura stessa. Familiarizzando con loro, Emanuela ha pensato di realizzarne materiali sostenibili. In particolare, sostanze biodegradabili e con un impatto ambientale nullo.

«Abbiamo iniziato a raccontare queste realtà ai ragazzi delle scuole superiori per educarli e responsabilizzarli dinanzi ai problemi contemporanei». Come quello ambientale e climatico.

L’idea di Emanuela Gatto è stata quella di creare una bioplastica a partire dal latte, alimento che differenza di mais e patate offre il vantaggio di non essere stagionale e quindi più facilmente reperibile.

La svolta arriva nel 2018, con la presentazione e la vittoria di questa illuminazione al premio regionale Start Cup Lazio. Da qui il riconoscimento di altri premi, come uno speciale per l’imprenditoria femminile nel 2018 al Premio nazionale per l’innovazione promosso dalla rete nazionale degli incubatori di impresa universitari (PINCube). E l’arrivo alla fondazione della startup, cui Emanuela dà vita insieme a due ricercatrici, Valentina Armuzza e Raffaella Lettieri, sostenute dall’economista Graziano Massaro, che si occupa del budget e controllo di gestione finanziaria della società.

Nelle scorse settimane, Splastica è risultata una delle cinque startup a guida femminile e italiane che godranno dei benefici economici previsti da Women TechEu, il programma pilota europeo che ha l’obiettivo di abbattere il divario di genere, presente anche nel campo dell’innovazione. Splastica riceverà dall’Ue supporto di coaching e tutoraggio, oltre ad aiuti economici mirati per aiutarla a sviluppare la propria attività, grazie a sovvenzioni del valore di 75.000 euro.

«Un prototipo di laboratorio di questa bioplastica, a partire dal latte, esisteva già nei nostri laboratori, ma il passaggio dalla scala di laboratorio a quella industriale rappresenta la vera sfida. Abbiamo deciso di chiamarla Splastica rimarcando il ruolo della s privativa, per testimoniare che originare una alternativa parallela al derivato del petrolio è possibile».

Come startup nata in un centro di ricerca, Emanuela e il suo team hanno la possibilità di «modulare le proprietà della nostra bioplastica a seconda delle esigenze di mercato. Ottenendo granuli per la realizzazione di film per il packaging, oppure granuli diversi, a seconda del tipo di oggetto che si vuole realizzare. Inoltre, a differenziarci è anche la materia prima: noi utilizziamo dei rifiuti alimentari, dunque, non prevediamo lo sfruttamento di terreni».

Poi il tema, non secondario, del prezzo. «Partiamo da polimeri naturali prima a costo zero, su cui, per ora, non abbiamo concorrenti. Per questo la nostra bioplastica, a differenza di altre, presenta un costo contenuto».

Per ora, la startup ha dato vita a dei gadget ecofriendly ma in futuro il sogno è quello di realizzare stoviglie, piatti e tappi a impatto zero. E far entrare nel mercato i propri prodotti.

«Una volta terminato il ciclo di vita, gli oggetti creati vengono immessi in una compostiera organica. Diventando, in circa due mesi, concime per la terra». Che ci rifornirà di nuove materie prime.

«Il nostro progetto, così come quello di altre importanti colleghi, fa capire - ci tiene a sottolineare Emanuela - che in questo momento storico è particolarmente importante preservare il nostro Pianeta. E che dare fiducia alle idee delle donne è una buona iniziativa».

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