Diritti

Sport, la violenza di genere è “endemica”: i tassi oscillano tra il 26% e il 75%

Dai baci forzati agli squilibri di potere, fino alle offese verbali e agli attacchi fisici (come il pugno ricevuto dalla capitana del Trastevere calcio femminile): secondo La Trobe University, gli abusi ai danni delle sportive sono “normalizzati” e spesso non vengono puniti
Credit: Harrison Haines 
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
23 aprile 2024 Aggiornato alle 17:00

«Quello che mi ha colpito faceva gestacci, sputava. Io e l’altra capitana cercavamo di dividere le ragazze ma lui è tornato indietro e mi è venuto contro dicendomi cose brutte. Faceva gestacci indicandosi il pene. Allora io ho chiesto “Ma se lo facessero alle vostre figlie?”». A parlare è Alice Ferrazza, capitana del Trastevere calcio femminile che domenica è stata colpita con un pugno in faccia dal 71enne Vittorio Belotti, coach personale di alcune giocatrici della Vis Mediterranea soccer, secondo quanto confermato dal patron della squadra Stefano Bisogno.

«Purtroppo ancora oggi ci troviamo a parlarne. È molto triste. Si discute tanto di violenza sulle donne, di come tutelarle, anche noi partecipiamo alle manifestazioni e poi accadono queste cose nei campi e non solo - ha detto Ferrazza - Per me è la prima volta e posso dire che eravamo tutti sconvolti, anche l’arbitra. In due giorni tutte le società si sono strette attorno a me, questo è stato molto bello ma non basta».

Quello che si è consumato sui campi del calcio femminile della serie C non è che l’ultimo episodio di una lunga storia di violenze ai danni delle sportive. Dai baci forzati agli squilibri di potere, infatti, la violenza contro le donne nello sport è endemica, spiega la nuova ricerca de La Trobe University: i tassi di prevalenza della violenza interpersonale vanno dal 26% al 75% tra psicologica, fisica e sessuale, a seconda di come la violenza è stata definita e misurata.

Basta pensare, scrivono le autrici dello studio Fiona Giles e Kirsty Forsdike su The Conversation, alla vicenda che ha coinvolto la giocatrice Jenni Hermoso, costretta a subire un bacio non voluto da parte dell’allenatore Luis Rubialez: “anche dopo che milioni di persone avevano assistito alle azioni di Rubiales, era ovvio che l’esperienza di Hermoso era stata minimizzata, che potenti organizzazioni tentavano di costringerla a dichiarare che era consensuale e che ci sono volute le voci collettive delle donne che stavano dalla parte di Hermoso per reagire con una sonora risposta. ‘NO’”.

È di queste ore la notizia che la Camera penale ha respinto i ricorsi dell’ex presidente della Rfef e degli altri 3 accusati di aver costretto la giocatrice a comparire pubblicamente in un video per sminuire l’importanza di quel bacio e che, quindi, Rubiales andrà a processo. Questo sembra però un caso eccezionale. Secondo l’analisi, che ha esaminato 25 anni di studi relativi alle esperienze delle donne in materia di violenza di genere nello sport, infatti, raramente i perpetratori sono ritenuti responsabili e, anzi, spesso sono liberi di continuare ad abusare impunemente delle vittime. Per avere giustizia, dice lo studio, le donne agiscono in gruppo, per esprimere le proprie esperienze e affrontare gli autori di abusi.

L’analisi è stata condotta attorno a 5 temi: il lavoro per la sicurezza delle donne, la normalizzazione dei comportamenti abusivi nel contesto sportivo, la violenza familiare nello sport, l’impotenza e l’ostilità organizzativa e lo status delle donne in un sistema patriarcale. Le esperienze di abuso delle donne sono state mappate attraverso diversi livelli: individuale, relazionale, organizzativo e culturale del modello socio-ecologico, “dove la (mancanza di) potere è un fattore centrale all’interno di ogni livello e scorre tra i livelli”.

Il potere, spiegano le autrici, “è un fattore chiave che attraversa tutte le nostre scoperte: sebbene le donne possano essere in grado di esercitare un certo potere attraverso la resistenza collettiva, il potere spesso rimane nelle mani degli uomini e delle istituzioni sportive che sono complici”.

Le donne che praticano sport subiscono molteplici tipi di violenza (sessuale, fisica, psicologica, finanziaria), spesso da parte di più di un perpetratore. Gli allenatori o altre figure autoritarie sono gli autori più comuni, seguiti da atleti di sesso maschile o membri del pubblico. Lo studio ha anche riscontrato un altro elemento preoccupante: la “normalizzazione” di questi comportamenti violenti nel contesto sportivo, che sono considerati “prevedibili” e sono stati “regolarmente scusati per ottenere risultati”.

Chi denuncia, spesso si trova davanti alle risposte insufficienti delle organizzazioni sportive, quando non una vera e propria opposizione, oltre ad atteggiamenti “attivamente malevoli e crudeli”. Le donne sono spinte a proteggersi da sole, evitando gli autori del reato o abbandonando completamente lo sport. Spesso le denunce non portano a nulla, anche a causa dell’assenza di codici di condotta, dell’omertà e della mancanza di riservatezza, perché “tutti conoscono tutti”.

Ma c’è di peggio: in alcuni casi, “le donne sono state derise e viene detto loro che avevano immaginato l’abuso, una strategia deliberata dell’organizzazione per anteporre il ‘successo’ e la ‘vittoria’ alla sicurezza delle donne”.

Questo è legato al fatto che le dinamiche nei gruppi sportivi funzionano come quelle di una famiglia allargata o surrogata, creando le condizioni per quella che molti studi e le autrici chiamano “violenza familiare sportiva”: “lǝ atletǝ trascorrono molto tempo all’interno del nucleo familiare sportivo, creando stretti rapporti con il loro allenatore, altre figure autoritarie e compagni di squadra”.

In questo contesto, quella dell’allenatore diventa una figura paterna, un fenomeno che è stato registrato da molti studi. Questo li rende intoccabili, soprattutto quando portano risultati e sono considerati “i migliori”: nessuno li mette in discussione, dando loro un enorme potere, “che hanno usato per isolare le donne di cui avevano abusato sia dalla famiglia sportiva che dalla loro famiglia reale, esercitando un controllo coercitivo per mantenere un ambiente di segretezza e dominio”.

Soprattutto, però, la ricerca ha rilevato come le donne siano ancora considerate “inferiori” nel mondo dello sport, una discriminazione che si traduce in una ostilità nei loro confronti, perché “vengono percepite come una minaccia alla mascolinità egemonica dello sport”, soprattutto negli sport non tradizionali (ad esempio il judo e la boxe) o rispetto a figure femminili dirigenziali.

I passi avanti ci sono, dicono le autrici citando nuove linee guida e gruppi collettivi che provano a cambiare la situazione. Ma non sono abbastanza.

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