Ambiente

Vegano non è sinonimo di sostenibile

Molti brand di moda utilizzano il termine in maniera impropria, solo per apparire più etici di quanto, in realtà, non siano. Se da un lato ci si professa “cruelty free”, dall’altro spesso non si rispetta l’ambiente
Credit: Hong Nguyen
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 7 min lettura
21 marzo 2022 Aggiornato alle 19:00

C’è vegano e vegano. Nella moda, poi, il dibattito è sempre più attuale.

Molto spesso i marchi utilizzano il termine in maniera impropria, solo per apparire più etici di quanto, in realtà, non siano. Ma c’è molta confusione, rispetto al settore del fashion, tra etica, sostenibilità, e su cosa significhi, effettivamente, il termine “vegan”.

Dress the Change è un’associazione senza scopo di lucro che dal 2017 si occupa di divulgazione ed educazione del consumatore sui temi di moda sostenibile e giustizia sociale. Andrea Solenghi fa parte del team: «Cerchiamo di dare degli strumenti di lettura della realtà in cui viviamo, quella soprattutto legata al settore della moda: l’interesse del pubblico per questi argomenti è aumentato molto negli ultimi anni», perché grandi e piccoli marchi si sono mossi per promuovere una visione più green «che poi non corrisponde, il più delle volte, a delle vere azioni in questo senso. Da un certo punto di vista è più semplice per i venditori promuovere un impatto ambientale minore perché è più comprensibile, e come tale più vendibile, piuttosto che una maggiore attenzione alla giustizia sociale», che Solenghi spiega essere legata alla sfera dell’etica.

«Più nello specifico, etica del lavoro: se messa in relazione al mondo della moda, riguarda il trattamento dei lavoratori del settore, del giusto salario – la cui soglia cambia a seconda di Stato e zone di riferimento -, della dignità e della sicurezza del lavoro». Tematiche che spesso appaiono molto distanti, perché si affiancano a una parte della filiera che si trova all’estero, o nel sud est asiatico o nell’Europa dell’est, «che è diventata il Bangladesh dell’Europa. Ma anche in Italia, ultimamente, abbiamo assistito a morti sul lavoro nel settore del tessile».

Per parlare correttamente di moda vegana è bene fare una distinzione tra etica e sostenibilità: «Quest’ultima riguarda l’impatto dell’uomo sull’ambiente, quindi si parla di risorse consumate, della loro non rinnovabilità, di spreco, di rifiuti. Nel mondo dell’etica, invece, ci riferiamo alla giustizia sociale, che riguarda i lavoratori, ma anche allo sfruttamento degli animali, per esempio: l’etica è ciò che ci consente di distinguere tra ciò che è giusto fare e ciò che non è giusto fare».

Una persona vegana può trovare sbagliato indossare un capo in pelle che un tempo era un essere vivente «perché la sua sensibilità e la sua sostanza dell’etica gli impediscono di farlo. Ed è una posizione comprensibile e rispettabile, ma stiamo parlando di etica e non di sostenibilità». Come si comprende bene dalle parole di Andrea Solenghi, si tratta di due aspetti che possono toccarsi, ma non si sovrappongono.

Chiarita la differenza tra etica e sostenibilità, possiamo cercare di spiegare meglio il concetto di moda vegana: «Non credo ci sia una definizione vera e propria», spiega Solenghi, «ma fa riferimento a tutti quei manufatti che appartengono al settore moda e sono stati realizzati in materiali vegani. Ovvero, non solo i materiali stessi non hanno una provenienza animale, ma niente di ciò che è stato utilizzato per produrli ce l’ha».

L’esempio lampante di materiale non vegano è la pelle animale, ma anche la seta è esclusa dalla categoria ed è un emblema della distinzione tra etica e sostenibilità, concetti indipendenti ma strettamente connessi: «Per chi è strettamente vegano, la seta è off limits perché per ottenerla vengono bolliti anche i bozzoli con all’interno i bachi da seta, cioè le larve che producono le fibre da cui viene ricavato il materiale in questione. E la sofferenza del baco, anche se non quantificabile, rende questo processo inammissibile dal punto di vista dell’etica». E dal punto di vista della sostenibilità? «Il processo della bollitura in sé non aumenta l’impatto che l’uomo ha sulle risorse naturali, ma influisce tutto il resto: le condizioni di temperatura e umidità che le serre devono mantenere per coltivare i bachi da seta, le ingenti risorse impiegate, poi le foglie di gelso da coltivare per cibare le larve – e queste coltivazioni minano la biodiversità». La seta, dunque, è un chiaro esempio di materiale non sostenibile e non etico: da una parte per l’impronta ambientale delle azioni dell’uomo a essa collegate, ben misurabili e quantificabili, dall’altra per la sofferenza che provoca negli animali (cosa che la rende non vegana).

Ma uno degli aspetti positivi della moda vegana è sicuramente «la sua forte leva per l’innovazione, che ha permesso di studiare nuovi materiali e metterli a disposizione del settore. Il problema è concentrarsi su un unico aspetto in maniera univoca, escludendo tutti gli altri, come il contesto ambientale. Un esempio molto virtuoso, però, può essere Orange Fiber, che è una fibra derivante dagli scarti dell’arancia». Una lavorazione simile agli scarti del lyocel, «ricavato dalla polpa del legno»: in entrambi i casi si tratta di fibre derivanti da un vegetale, valide alternative alla seta: si estrae una fibra di cellulosa che può diventare un filato e, successivamente, tessuto «senza intaccare la salute di nessun animale né dell’ambiente. Qualcuno potrebbe dirmi che avevamo già il cotone, la canapa, il lino derivanti dai vegetali, ed è verissimo, ma questi in particolare sono tessuti lisci, morbidi e simili alla seta». Anche tra i brand di lusso ci sono alcuni esempi virtuosi: Demetra di Gucci, “bio based e animal-free”, composta al 77% da materie di origine vegetale. Oppure la collaborazione tra Hermès e MycoWorks, che ha dato vita a un surrogato della pelle con un tipo di fungo, il micelio, e non richiede sostanze sintetiche per essere lavorato.

Solenghi cita anche un esempio di greenwashing (l’ecologismo di facciata) collegato alla moda vegan e alla seta: «Asos, il famoso sito britannico che vende online vestiti e cosmetici, aveva annunciato che non avrebbe più utilizzato la seta nelle sue collezioni: il brand di fast fashion (che realizza abiti di bassa qualità a prezzi super ridotti, mettendo sul mercato una grandissima quantità di merce, ndr), però, non ha implementato l’uso di altre fibre studiate per avere un impatto minore, ma ha fatto ricorso al caro e vecchio poliestere, lo stesso utilizzato fino a qualche anno fa, con la stessa identica lavorazione». Si tratta di un materiale che, se da una parte riutilizza materiali di scarto, come le bottiglie di plastica, dall’altra non ha un buon impatto ambientale a causa di quegli stessi materiali di scarto che usa, e la sua sostenibilità dipende dalle lavorazioni adoperate.

Si tratta di un esempio lampante di raggiro del consumatore e di strumentalizzazione di un’etichetta che dice “vegan” e poi dimostra tutt’altro. «Ci sono varie associazioni che verificano l’attendibilità di questi materiali, come Leather Working Group, un’organizzazione internazionale che ha sviluppato un protocollo per valutare le prestazioni ambientali e sociali dei produttori di pelletteria lungo tutta la filiera, dai produttori, ai fornitori, fino ai brand».

Ma questo non basta, perché «finché non ci concentriamo sul consumo di per sé, e dunque sulle quantità di vestiti che vengono prodotti o sull’impatto delle filiere, guarderemo un granello di sabbia in una spiaggia immensa». Alcuni strumenti sono utili a indagare la sostenibilità: Higg Index mostra i dati relativi ai materiali, con “strumenti che insieme valutano le prestazioni sociali e ambientali della catena del valore e gli impatti ambientali dei prodotti”, si legge sul sito. Poi, per quanto riguarda l’analisi dei brand, c’è Good on you: “La principale fonte mondiale di valutazione dei marchi di moda: mettiamo insieme tutte le informazioni e utilizziamo l’analisi degli esperti per assegnare a ciascun marchio un punteggio”.

La soluzione è prestare attenzione, mettere cura nella scelta dei materiali e dei brand e, soprattutto, contare fino a dieci prima di comprare qualcosa. Le alternative ci sono, la letteratura che ne spiega composizione, pro e contro pure. Bisogna solo cercare bene.