Diritti

Uk: il Pride di Londra dice basta al rainbow washing

Per partecipare alla London Parade, aziende e brand devono far parte del membership program annuale Pride in the city, impegnandosi a sostenere diversità e uguaglianza 365 giorni l’anno
Credit: Loredana Sangiuliano/SOPA Images via ZUMA Press Wire 
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
2 aprile 2024 Aggiornato alle 12:15

Orgoglio, lotte, libertà, commemorazione della notte che ha cambiato il corso della storia. Quello del Pride è un momento in cui si celebrano tutte queste cose, e moltissime altre. A oltre mezzo secolo di distanza dalla nascita, però, le parate Lgbtq+ sono diventate anche qualcos’altro: un modo per le aziende di sfoggiare la loro allyship performativa, mostrando la loro vicinanza ai diritti e alle cause della comunità senza abbracciarne davvero battaglie e valori. Il logo arcobaleno sui social, la sponsorship il giorno dell’evento e tanti saluti all’anno prossimo. In una parola: rainbow washing.

La presenza di brand e aziende (certamente positiva dal punto di vista finanziario e dell’istituzionalizzazione) che in gran parte utilizzano le questioni Lgbtq+ esclusivamente come strategia di marketing è vissuta con maggior insofferenza da un numero crescente di persone e militanti, soprattutto da quelle che temono che questo possa snaturare la manifestazione. In Italia, per esempio, sono nate molti Pride alternativi (o “antagonisti”), come la Marciona a Milano, il Priot a Roma e il Free-k Pride a Torino. Ma anche nei Paesi in cui il Pride non è una marcia partecipata da tuttǝ lǝ cittadinǝ ma una parata istituzionale in cui carri, associazioni e realtà varie sfilano mentre il pubblico assiste dai lati della strada (e a cui è necessario iscriversi per partecipare): le organizzazioni stanno correndo ai ripari per contrastare il sempre più presente rainbow (e pink) washing.

È il caso di Londra, il cui Pride è una delle manifestazioni Lgbtq+ più importanti del Paese, con oltre 30.000 partecipanti alla parata e 1,5 milioni di persone che arrivano nella capitale britannica ogni giugno per assistere all’evento. Da quest’anno, infatti, le aziende che vorranno sfilare durante la marcia dovranno impegnarsi a sostenere le istanze, i valori e le cause della comunità nella loro quotidianità, con un coinvolgimento che vada oltre le 24 ore del Pride (o nella migliore delle ipotesi dei 30 giorni del Pride Month) ma che sia a 360°. O, meglio, a 365 giorni.

Il programma si chiama Pride in the City, ed è una vera e propria membership (a numero chiuso) che “permette di sostenere e interagire attivamente con la comunità LGBTQ+, dimostrando l’impegno della tua organizzazione nei confronti della diversità e dell’uguaglianza”, si legge sul sito.

“Creare un ambiente di lavoro inclusivo è molto più di una semplice casella da spuntare”, per questo chi vuole presentarsi come ally della comunità ha dovuto dimostrare di essere pronto a impegnarsi davvero. Non solo economicamente (grazie a una fee - tassa annuale di 7.000 dollari, 5.250 sterline per le aziende medio-piccole, pari a poco più di 8.000 euro) ma anche attraverso formazioni, fornite ai membri del programma, su argomenti come “far sentire i colleghi trans e non binariǝ benvenuti in ufficio e sulla creazione di un luogo di lavoro inclusivo per i dipendenti LGBTQ+”.

In cambio, le aziende iscritte al programma potranno avere: opportunità pubblicitarie dedicate, oltre a “visibilità del marchio” sulla pagina web e, soprattutto, qualificarsi per la London Parade, l’ingresso alla quale, chiarisce una nota in grassetto sul sito, “è limitato alle aziende che sono membri del Pride in the City”.

«L’iniziativa è nata dalla reazione della comunità al pinkwashing aziendale - ha detto a Hr Magazine Dee Llewellyn, direttore delle partnership e della crescita del Pride di Londra - Abbiamo ascoltato il feedback della comunità riguardo alle organizzazioni aziendali che marciavano nella nostra parata e questo ha innescato una conversazione interna su cosa potremmo fare di più per garantire che le aziende che marciano nella nostra parata non siano un pinkwashing. […] Non è sufficiente che i brand cambino semplicemente il loro logo per un mese e facciano una campagna di orgoglio a giugno, per poi dimenticare la nostra comunità sia internamente che esternamente per il resto dell’anno».

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