Diritti

Jacinda Ardern: «Le democrazie sane vacillano quando la speranza muore»

Pubblichiamo il discorso integrale dell’ex Prima Ministra della Nuova Zelanda in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna
Credit: Unibo
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21 marzo 2024 Aggiornato alle 11:00

Buongiorno!

Inizio il mio discorso come farei se fossi nel mio paese natale Aotearoa, o Nuova Zelanda, con alcune parole di benvenuto e di gratitudine per l’opportunità di essere qui con voi oggi, in particolare nei confronti del Magnifico Rettore, Giovanni Molari. Vorrei ringraziare anche il Ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini.

Prima di iniziare, vorrei dire alcune parole ai giovani ragazzi e ragazze presenti in questa sala. Tra le tante cose che dirò oggi, spero che ricorderete questa: per me siete sempre stati una fonte di ispirazione e di speranza. Non perdete mai la curiosità, la speranza e l’ottimismo.

Ho ricevuto l’invito a unirmi a voi qualche mese fa, con grande sorpresa. Dopo tutto, sono un’ex politica che proviene dai confini del mondo. Quale saggezza potrei mai condividere con un’istituzione che porta l’onore di essere la più antica università del mondo e che oggi festeggia il suo 936° anno accademico?

Per darvi un’idea, l’Università che ho frequentato in Nuova Zelanda è stata fondata nel 1964. I miei genitori sono più vecchi dell’università che ho frequentato. L’età non è sempre un sinonimo di saggezza, ma l’esperienza conta sicuramente molto. Ed è forse con questo spirito che mi unisco a voi oggi. Prima, però, mi presento.

Mi chiamo Jacinda Ardern e sono stata la Prima Ministra della Nuova Zelanda fino all’inizio del 2023. Ho avuto il privilegio di guidare questo bellissimo Paese di 5 milioni di persone per 5 anni, e ho lavorato come parlamentare per un totale di 15 anni. Mi sono avvicinata alla politica all’età di 17 anni, sono figlia di un poliziotto e di un’addetta alla mensa. Non avevo l’ambizione di diventare una leader e non mi sono mai vista come tale. Al contrario, ero quello che mio padre avrebbe definito una “hippie ambientalista.” Osservavo i problemi del mondo, le ingiustizie, la povertà, le disuguaglianze, il degrado ambientale, e consideravo la politica come uno strumento per trovare le soluzioni a questi problemi.

Mi sono iscritta al Partito Laburista per questo motivo, e all’inizio, più che cambiare il mondo, distribuivo volantini porta a porta. Alla fine, mi sono ritrovata a essere ricercatrice in Parlamento, consulente nell’ufficio del Primo Ministro, deputata e poi leader del mio partito. Tutto questo a sole 6 settimane dalle elezioni, quando sono diventata, con mia grande sorpresa, Prima Ministra. Mi sono sentita come se fossi la rana metaforica in una pentola che bolle.

Dopo aver prestato servizio per oltre 15 anni in Parlamento, di cui 5 come Prima Ministra, è facile disilludersi della politica come strumento di cambiamento positivo e portatore di speranza. Ma la verità è che non ho ancora perso questa speranza. E credo che mai lo farò. Ciò in cui credo fortemente, invece, è che la leadership politica sia cruciale, soprattutto nell’era della “crisi”.

Vi chiederete cosa intendo esattamente per crisi, dato che assistiamo ogni giorno a un’infinità di situazioni disastrose: le conseguenze del cambiamento climatico, le disuguaglianze, la rivoluzione tecnologica, i conflitti globali, la proliferazione delle armi nucleari e la minaccia, oggi molto concreta, delle pandemie in corso e del caos che portano. Dobbiamo confrontarci con la paura che queste minacce esistenziali si aggravino, ma anche con la rabbia derivante dalla consapevolezza della nostra responsabilità in merito. A ciò si aggiunge la frustrazione per il fatto che qualsiasi tentativo di trovare una soluzione globale è costantemente ostacolato da coloro che preferiscono rimanere inerti.

Tuttavia, questi problemi non sorgono isolati, ma piuttosto in un contesto in cui ci troviamo impigliati tra i fili di un cambiamento e una divisione senza fine. Nonostante l’attuale elevata connettività globale, percepiamo una mancanza di unità che rende difficile trovare un terreno comune. Come possiamo quindi affrontare le grandi sfide globali, se non riusciamo nemmeno a stabilire quale sia il vero problema?

Nel corso degli ultimi cinque anni, ho riflettuto intensamente su questa domanda e vorrei condividere con voi alcune considerazioni. Il primo punto su cui vorrei concentrarmi è il contesto in cui si svolgono tutti i dibattiti o le sfide. Le basi. E questo implica fare un bilancio della situazione attuale e del benessere della nostra gente.

È difficile affrontare qualsiasi sfida con la mente aperta e con fiducia se si ha la sensazione di essere stati trascurati, ignorati o di dover lottare per sopravvivere. Se esaminiamo le caratteristiche comuni tra coloro che manifestano problemi di fiducia nel Governo e nelle istituzioni pubbliche, notiamo che spesso provengono da fasce socioeconomiche svantaggiate. Questa è la testimonianza tangibile del fallimento della politica e dei Governi.

Per costruire società sane e fiduciose dobbiamo ripartire dalle basi. Secondo me, la povertà è proprio una di queste. Anche se non abbiamo tutte le risposte, nel nostro angolo di mondo, nel 2004 il Governo laburista ha introdotto un regime di credito d’imposta chiamato Working for families. Ha avuto un impatto significativo sulla riduzione della povertà in Nuova Zelanda, registrando uno dei maggiori cali mai avvenuti. Il successo di questa misura è stato così rilevante che è stata mantenuta anche durante i successivi Governi.

Quando siamo saliti al potere, abbiamo adottato un approccio simile. Abbiamo introdotto un assegno universale per i figli, aumentato considerevolmente i livelli di sussidio. Abbiamo esteso il congedo parentale retribuito a sei mesi, ampliato l’accesso ai sussidi per l’assistenza all’infanzia per quasi tutti i genitori single, e garantito assistenza sanitaria primaria gratuita ai bambini fino ai 14 anni. Abbiamo inoltre fornito pasti scolastici gratuiti nelle zone socioeconomiche svantaggiate, aumentato il salario minimo e introdotto prodotti per il ciclo mestruale in tutte le scuole. Tutto ciò ha contribuito a un sostanziale calo della povertà infantile, mentre politiche come la gratuità del primo anno di istruzione post-secondaria e dell’apprendistato hanno contribuito al benessere generale delle comunità.

Norman Kirk, politico e Primo Ministro neozelandese degli anni ‘70, una volta disse: «Le persone hanno bisogno di 4 cose: un tetto sopra la testa, cibo sulla tavola, vestiti da indossare e qualcosa in cui sperare». Le persone sono costantemente alla ricerca di soluzioni per i propri problemi e di modi per soddisfare i propri bisogni. Cercano una luce, una speranza, la realizzazione delle proprie ambizioni. La leadership politica può soddisfare o deludere profondamente queste aspettative. Tutti i presenti in sala ricorderanno momenti del genere. Io sicuramente.

Torniamo di nuovo in Nuova Zelanda, negli anni ‘90. Durante il decennio precedente, la mia piccola Nazione aveva attuato alcune delle riforme economiche più complete di qualsiasi altro Paese dell’Ocse nella storia recente, passando da un’economia altamente regolamentata a una delle più aperte. La transizione è stata rapida ma non priva di ostacoli. La disoccupazione ha raggiunto il 10%, con picchi del 25% nella comunità Maori, popolazione indigena della Nuova Zelanda. I livelli di debito pubblico sono stati giudicati insostenibili. È stato annunciato un taglio significativo della spesa pubblica, con impatti particolarmente negativi su coloro che dipendevano dai sostegni pubblici come l’indennità di disoccupazione, o famiglie monoparentali.

Avevo 11 anni quando uscì quello che fu definito il “bilancio di tutti i bilanci”. Era un bilancio così controverso che da bambina ricordo un cartone animato che raffigurava l’allora Ministro delle Finanze davanti a un grande calderone di zuppa con un bambino che ne chiedeva ancora. Si è detto che quel bilancio aveva “formalizzato la stratificazione della società neozelandese”.

In periodi di grande complessità politica, è utile vedere il mondo attraverso gli occhi di un bambino. Non ricordo molto delle complicazioni politiche di quel periodo, ma ricordo bene l’impatto che ha avuto sulle persone. Ricordo i bambini della mia scuola senza scarpe, le industrie che chiudevano e la disoccupazione che aumentava. Ricordo la diffusione di malattie associate alla povertà. Ricordo che il figlio di un vicino si è tolto la vita. E ricordo ancora come ci si sentiva. Si parlava molto delle persone disoccupate che ricevevano sussidi dal Governo, e dei cosiddetti furbetti della disoccupazione. Ricordo il cambiamento delle politiche di immigrazione e il dibattito che ne seguì, con alcuni leader politici che usavano termini terribili come “invasione asiatica”. Senza forse rendersene conto pienamente, la Nuova Zelanda stava assistendo all’uso di uno degli strumenti più potenti a disposizione di un politico: la paura.

Nella nostra storia ci sono stati molti momenti in cui la paura è stata presente. Dalla grande depressione, alle guerre mondiali, fino alla pandemia. Tuttavia, c’è una grande differenza tra una vera minaccia e una generata per fini politici. La paura può essere utilizzata per giustificare l’immobilismo o l’inazione. Lo vediamo quando viene usata per indurre le persone a fare cose che di solito non farebbero. La paura dell’immigrazione, della diversità e dell’uguaglianza. La paura che il supporto dato a qualcun altro possa minacciare il proprio stile di vita. La paura è una delle vie più rapide e semplici per attribuire colpe.

Perché un politico dovrebbe scegliere di utilizzare uno strumento del genere? Incolpare gli altri permette di evitare la responsabilità di trovare soluzioni autonomamente. Ironia della sorte, l’utilizzo della paura come arma ha anche la capacità sia di unire le persone attorno a un’estremizzazione politica, sia di dividerle.

Credo che sia utile ricordarvi ancora una volta che sono una persona ottimista. Non ritengo che l’istinto naturale delle persone sia quello di ricercare la paura e l’attribuzione di colpe. Al contrario, in molteplici occasioni, ho sperimentato momenti che mi hanno dimostrato che la maggior parte delle persone non è in cerca di un colpevole, bensì di speranza.

Essere una leader ottimista, fiduciosa, significa credere sempre che le cose dovrebbero e possono andare meglio, avere ambizione. Credere, come ho fatto io, che ogni Paese sviluppato debba liberarsi dalla povertà infantile e diventare il posto migliore al mondo per crescere un bambino. Avere una rappresentanza equa tra uomini e donne nei ruoli di leadership, così come una retribuzione equa per entrambi i sessi. Essere ambiziosi in questo modo implica stabilire obiettivi che si ritengono raggiungibili, anche se ciò richiederà tempo e impegno.

Guidare un Paese in questa prospettiva significa anche assumersi rischi e mettersi in gioco. Rischiare. Quando si ha successo, spesso si tende a considerare la vittoria come scontata e a non darle importanza. Tuttavia, quando si fallisce, che sia per ragioni legittime o ingiuste, si è spesso soggetti a critiche che portano a ridimensionare le proprie ambizioni. Fino a perdere completamente l’ambizione e ridurre le aspettative dei cittadini.

E così inizia una spirale verso il basso, in cui i cittadini e le cittadine non si aspettano più nulla, tanto meno speranza. Ho affrontato questo problema durante la mia carica. E non credo di aver mai trovato il giusto equilibrio. Ma so che avrei preferito essere criticata per essere stata troppo ambiziosa riguardo alle capacità della nostra Nazione, piuttosto che non esserlo stata affatto. Preferisco che i cittadini e le cittadine da noi leader si aspettino che facciamo tutto, piuttosto che niente.

Le democrazie sane vacillano quando la speranza muore. Ecco perché, in un mondo di grandi sfide, coloro che sono in politica devono fare una scelta. Abbandonare la paura e la colpa e correre invece il rischio di avere speranza e ambizione. A sua volta, anche chi vota ha una scelta da fare: non perdere il senso delle aspettative. Ci sono numerose sfide a lungo termine che necessitano la nostra ambizione, come quelle relative al cambiamento climatico.

Quando sono diventata Prima Ministra nel 2017, una delle maggiori sfide che abbiamo dovuto affrontare è stata proprio quella del cambiamento climatico. Come ogni Nazione, la Nuova Zelanda ha intrapreso il proprio percorso. Durante il mio lavoro come consulente parlamentare agli inizi degli anni 2000, c’è stato un acceso dibattito riguardo alla gestione delle emissioni agricole, giustamente. A dir la verità, quasi metà delle emissioni della Nuova Zelanda proviene dall’agricoltura: il sistema digestivo delle mucche e, in misura minore, quello delle pecore, emette una grande quantità di gas serra. E noi abbiamo un gran numero sia di mucche che di pecore.

Una ventina di anni fa il dibattito era acceso. Gli allevatori hanno coniato il termine “tassa sul peto” per il meccanismo di tariffazione proposto, sostenendo che le emissioni prodotte dagli animali fossero al di fuori del loro controllo e che quindi non si dovrebbe chiedere loro di assumersi la responsabilità. Allo stesso tempo, la scienza del cambiamento climatico è stata oggetto di forti contestazioni, alimentate sia dalla paura che dalla colpa, causando profonde divisioni.

La questione è stata abbandonata a seguito di una protesta in cui i trattori sono saliti per le scale del Parlamento. 20 anni dopo, mi sono ritrovata al centro di questo stesso dibattito. Il problema non era scomparso, né l’astio era diminuito. Tuttavia, alcune cose erano cambiate. Con l’urgente necessità di attuare lo Zero Carbon Act, una legge volta a portare la Nuova Zelanda a zero emissioni entro il 2050, ci siamo trovati ad affrontare la questione del metano. Ma questa volta volevamo adottare un approccio diverso.

Fin dall’inizio, abbiamo coinvolto i leader della comunità agricola con l’intenzione di affrontare la necessità di cambiamento senza accusare nessuno. Ricordo chiaramente il primo giorno, quando chiesi a ciascun leader di condividere con il gruppo di 20 persone riunite ciò che volevano far conoscere riguardo ai prodotti della Nuova Zelanda. Man mano che ognuno di loro esprimeva i propri pensieri emergevano chiaramente i temi principali. Questi leader avevano a cuore la fiducia dei cittadini nella Nuova Zelanda e nei nostri prodotti. Capivano che, se non avessimo risolto le questioni legate alle emissioni e alla produzione alimentare, i consumatori avrebbero cercato altre alternative, influenzando così un mercato di esportazione cruciale.

Pur avendo forse affrontato il problema con prospettive leggermente diverse, le radici erano le stesse. Il processo che ne è seguito è stato lungo. Lo Zero Carbon Act è stato approvato, conteneva una misura di backstop, e in sostanza diceva che, a meno che il Governo e l’industria non fossero riusciti a trovare un’alternativa efficace, il settore dell’agricoltura sarebbe stato coinvolto nel sistema di scambio di emissioni a partire dal 2025. Il tempo scorreva e così ci siamo concentrati insieme sull’elemento che ci univa: la necessità di trovare una soluzione.

Ecco la prossima sfida che dobbiamo affrontare: motivare le persone a trovare soluzioni quando il cambiamento è difficile e incerto. È una generalizzazione, ma spesso la natura umana ci porta a resistere ai cambiamenti, specialmente quando implicano incertezza e perdita di controllo. Abbiamo avuto recentemente un esempio di questo. La pandemia è stata senza dubbio una delle esperienze più difficili che ho affrontato nei 5 anni in cui ho avuto il privilegio di essere Prima Ministra. Ci sono stati momenti di grande incertezza e sfide.

Ricordo che durante il picco della pandemia, ogni incontro bilaterale con altri leader si trasformava in una sorta di riunione di supporto per affrontare le sfide legate al Covid. Si discuteva delle statistiche e delle difficoltà di navigare in un mare di incertezza. Era evidente che tutti erano esausti. In Nuova Zelanda abbiamo vissuto praticamente due distinti periodi di Covid.

Abbiamo adottato una strategia di eliminazione e la prima fase del nostro percorso è stata caratterizzata da un notevole senso di unità. Questo è stato possibile grazie a diversi fattori precursori. In primo luogo, la trasparenza è stata fondamentale. Fin dall’inizio abbiamo optato per la massima chiarezza, sia riguardo a ciò che sapevamo che a ciò che non sapevamo. Questo può sembrare un concetto ovvio, ma in politica è spesso raro. Spesso, nella leadership, si crede che per guadagnare fiducia di coloro che guidiamo, dobbiamo mostrare di avere una conoscenza completa. Ciò significa che, quando ci viene posta una domanda, qualsiasi domanda, non possiamo ammettere di non sapere la risposta.

Sono fermamente convinta che, in tempi di incertezza, dobbiamo essere disposti a discutere sia delle informazioni e dei dati che abbiamo, sia di quelli che non abbiamo. Dopotutto, la sicurezza si costruisce sia sulla base fiducia che sulla competenza. I cittadini e le cittadine erano consapevoli che non sapevamo tutto sul Covid. Hanno potuto constatare che il mondo stava imparando strada facendo, mentre assistevamo alle numerose morti. Riconoscere che avevamo delle lacune di conoscenza non era solo la verità, ma era una parte fondamentale nella costruzione della fiducia.

Durante la pandemia, abbiamo imparato che avere un piano, anche in assenza di risposte, è più importante che possedere tutte le risposte. Si può ammettere di non sapere. Ma non è accettabile non sapere cosa fare. E così, di fronte a una conoscenza imperfetta, abbiamo imparato insieme. Il risultato di questo processo è stato che i cittadini e le cittadine hanno potuto capire le motivazioni alla base delle nostre decisioni.

Così, quando ho proposto misure che altrimenti sarebbero state considerate troppo radicali, come l’isolamento domiciliare per più di 4 settimane consecutive, non sono state considerate come tali. Sono state considerate piuttosto come il passo successivo e naturale. Siamo diventati una squadra di cinque milioni di persone. In due anni, questa squadra ha trascorso meno settimane in lockdown rispetto ad altri paesi. Abbiamo sconfitto il Covid più volte, salvando migliaia di vite. E, ancora più sorprendentemente, abbiamo aumentato l’aspettativa di vita media dei neozelandesi durante la pandemia. Costruire il consenso, sia sulla definizione del problema che sulle sue soluzioni, richiede che noi leader ci confrontiamo umilmente con la realtà che ci circonda. Essere disposti a mostrare un’umiltà tale da permetterci di imparare collettivamente, ma anche una risolutezza e una forza sufficienti per prendere decisioni in questo stesso ambiente imperfetto, è una sfida che abbiamo affrontato durante questo periodo di Covid.

Abbiamo capito anche il potere del collettivismo, o come qualcuno potrebbe chiamarlo, delle tribù. Tutti noi potremmo indicare esempi in cui la costruzione di un senso di comunità tra gruppi di persone altrimenti eterogenei è stata efficace nel guidare le persone attraverso il cambiamento, e altre occasioni in cui ha fatto il contrario.

Durante la pandemia abbiamo assistito a entrambi gli scenari. Un periodo in Nuova Zelanda in cui la Nazione era unita intorno a una causa comune, e una seconda fase della pandemia in cui le persone erano stanche e desideravano tornare alla normalità. Il percorso verso la normalità è stato ovviamente rappresentato dai vaccini, ma questi hanno anche aperto delle fratture: persone che non concordavano e altre che hanno abbracciato le teorie del complotto. Ma cosa spinge le persone a cadere nella trappola della disinformazione? È possibile che lo stesso elemento che ha contribuito al successo della nostra risposta al Covid abbia anche alimentato la nostra divisione? Oltre alla diffidenza di alcune persone verso lo Stato e i media, c’è la nostra incessante ricerca, come esseri umani, di un senso di chiarezza e appartenenza. La nostra ricerca quasi incessante di una “tribù” e, di conseguenza, del tribalismo. Può essere questa la ragione.

Numerosi studi dimostrano che gli esseri umani hanno una forte propensione a formare gruppi e tribù in modo naturale. Se si raggruppano persone che non condividono alcun legame e si lancia una moneta per ognuna di esse, si può osservare come questi gruppi formano istintivamente preconcetti reciproci solo sulla base del risultato del lancio della moneta. Gli studi dello scienziato Robert Sapolsky ci ricordano che gli esseri umani sono naturalmente inclini a organizzarsi in gruppi. Che si tratti di classi sociali, razze, religioni, nazionalità, teorie cospirative o anche solo di un lancio di moneta, abbiamo sempre avuto la tendenza a formare un “noi” contro un “loro”. Negli ultimi tempi, abbiamo assistito a una forte accelerazione di questa tendenza. Le persone si identificano sempre più profondamente con il proprio gruppo e si distanziano sempre di più da coloro che percepiscono come diversi.

Non è solo la nostra democrazia a sentirsi minacciata, ma anche la salute e il benessere delle nostre comunità e delle nostre famiglie. Ancora una volta, però, il mio ottimismo mi dice che, se la creazione di un senso di tribalismo può essere usata negativamente, può essere usata anche a fin di bene. L’ho visto con i miei occhi nel 2020 in Nuova Zelanda, quando cinque milioni di persone si sono unite per proteggersi e per salvare vite. Robert Sapolsky pone la stessa domanda: e se cambiassimo semplicemente il significato di “noi”? E se anziché concentrarci su un nazionalismo aggressivo e interessi personali o cadere nella trappola della disinformazione, ci impegnassimo a costruire tribù basate su idee o addirittura soluzioni ai problemi? Se smettessimo di definirci in opposizione agli altri, ma piuttosto ci definissimo sulla base di ciò che apprezziamo, dei valori che trasmettiamo ai nostri figli?

Valori come equità, gentilezza, empatia, curiosità e coraggio. Forse è tempo di chiedere ai nostri leader di essere coraggiosi nel discutere delle sfide che dobbiamo affrontare. Ma senza diffondere la paura. Che promuovano i valori che favoriscono il rispetto delle differenze, che possiedano l’empatia necessaria per comprendere i punti di vista altrui e che cerchino un’intesa anche nelle situazioni di divergenza. Che dimostrino curiosità e umiltà nel continuare a imparare, coraggio nel cambiare idea e l’ambizione di guidare anziché governare.

Questo, a mio avviso, è il modello che la leadership del XXI secolo può e deve seguire. Personalmente, non sono stata una leader perfetta. Non lo ero affatto. Abbiamo attraversato momenti difficili e ho intenzione di mantenere vivo il ricordo delle sfide e delle lezioni che abbiamo imparato in quei momenti. Voglio condividere i nostri errori per evitare che si ripetano, celebrare le nostre piccole vittorie affinché possano ispirare, e soprattutto diffondere speranza. In fin dei conti, tutti possiamo superare noi stessi, se è questo il tipo di guida che desideriamo.

Grazie.

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