Storie

“FoodForProfit”: il documentario che fa tremare l’industria zootecnica europea

«L’obiettivo era mettere al centro i soldi pubblici che l’Ue destina agli allevamenti intensivi», ha raccontato a La Svolta Giulia Innocenzi, autrice del progetto che smaschera l’insostenibilità del settore che, in nome del profitto, maltratta gli animali e danneggia il Pianeta
Giulia Innocenzi
Giulia Innocenzi
Tempo di lettura 9 min lettura
15 marzo 2024 Aggiornato alle 12:00

Nell’articolo pubblicato la settimana scorsa, La Svolta ha cercato di raccontare in che modo le campagne di disinformazione finanziate dalle lobby dell’agroalimentare stanno contribuendo all’inazione climatica; ma vuole scavare ancora più a fondo e lo fa approfittando dell’uscita di un nuovo documentario che sta facendo tremare l’industria zootecnica di tutta Europa.

Parliamo di FoodForProfit, un lavoro giornalistico coraggioso, che ha debuttato in sala soltanto poche settimane fa, e che sta scuotendo l’opinione pubblica. Un docufilm che smaschera, una volta per tutte, l’insostenibilità di un sistema malato che maltratta gli animali e inquina il Pianeta in nome del profitto: quello degli allevamenti intensivi.

La Svolta ne ha parlato con l’autrice, Giulia Innocenzi, volto di numerose inchieste andate in onda su Report, che già da tempo denunciano le tante storture del settore agroalimentare.

Come è nato il progetto FoodForProfit?

Mi sono occupata per anni di questo tipo di inchieste. Così, nel 2018, ho deciso di fare un salto ulteriore per cercare di raccontare non più il singolo caso, attraverso servizi d’inchiesta episodici, ma il sistema nel suo complesso. L’obiettivo che mi sono posta era quello di mettere al centro i soldi pubblici che l’Europa destina agli allevamenti intensivi. Tramite il pacchetto della politica agricola comune (Pac) l’industria zootecnica riceve dall’Unione Europea un totale complessivo di 387 miliardi di euro, la maggior parte dei quali confluisce nelle tasche dei grandi gruppi industriali, cioè quelli che inquinano di più e trattano peggio gli animali. Volevo dimostrare che ci troviamo davanti a una contraddizione in termini, soprattutto se si pensa che l’Europa si pone come obiettivo quello di diventare il primo continente green del mondo. È un’operazione che mi è costata 5 anni di lavoro, e sono molto orgogliosa dell’entusiasmo impressionante che sta raccogliendo.

Già giornalista, saggista e conduttrice televisiva: cosa l’ha spinta a passare al grande schermo?

Volevo superare i confini nazionali. Ho ritenuto che il format del documentario fosse il più adatto per raggiungere un’audience vasta e per fare una denuncia che spero si diffonda in tutta Europa. Abbiamo già pronte delle versioni sottotitolate in inglese, francese, tedesco e spagnolo. FoodForProfit non si rivolge a un pubblico italiano, ma internazionale. Tratta di una questione mondiale, che ci interessa e ci riguarda tutti. Oltre a questo, penso anche che per un tema come quello dello sfruttamento animale l’audiovisivo rappresenti un valore aggiunto. Le immagini hanno un potere unico di toccare nell’animo lo spettatore. Posso anche provare a descriverti quanto soffra un suino usando 50 pagine di un libro, ma se incroci il suo sguardo è difficile che tu possa dimenticare qualcosa che hai visto con i tuoi stessi occhi.

Qual è stato il processo di realizzazione del documentario? Come avete organizzato il lavoro?

All’inizio c’è stata una fase preliminare di selezione dei Paesi in cui girare. Abbiamo identificato i luoghi più significativi per poter raccontare tutte quelle che, secondo noi, sono le criticità principali che caratterizzano la zootecnia in Europa. Penso all’impatto ambientale dell’industria suinicola in Spagna, che continua a espandersi nella regione della Murcia, dove a causa dei cambiamenti climatici e della desertificazione l’acqua sta diventando una risorsa sempre più scarsa. O al fenomeno dell’antibiotico resistenza in Germania, dove i nostri investigatori sono riusciti a filmare operai che quotidianamente imbottiscono di farmaci vacche e vitelli “per non farli crepare”, come dicono loro. Un altro caso interessante è quello della Polonia, dove abbiamo parlato con delle comunità la cui vita è stata distrutta a seguito della diffusione degli impianti zootecnici. Oggi l’industria polacca è la prima produttrice di carne di pollo in tutta Europa, e buona parte di questa produzione viene addirittura esportata in Africa: una follia giustificata soltanto dalla voglia insaziabile di profitto delle aziende.

Parlando invece della fase di ripresa, è stato complicato per gli investigatori avere accesso agli allevamenti e ottenere i girati?

Decisamente. Gli investigatori sono riusciti a infiltrarsi fingendo di cercare impiego nelle varie strutture e hanno realizzato tutte le riprese grazie al supporto di una telecamerina per filmare ciò che succede quotidianamente all’interno degli allevamenti. Parliamo di pratiche assurde e brutali, ma che in questo settore sono all’ordine del giorno, totalmente normalizzate. In questo senso, la nostra squadra ha fatto un lavoro straordinario. È difficilissimo avere investigatori sotto copertura perché spesso, come nel caso dei macelli, gli operai si cambiano negli stessi luoghi che sono molto controllati e abitati da persone poco raccomandabili. Se abbiamo ottenuto delle immagini così potenti è tutto merito loro e del loro straordinario coraggio. Non solo per i rischi che hanno corso, ma anche per il carico emotivo che hanno dovuto sopportare.

Quasi tutti gli investigatori che hanno collaborato a FoodForProfit sono anche attivisti, molti sono vegani, tutti sono accumunati da una sensibilità molto spiccata nei confronti degli animali. Fare esperienza diretta di tutta quella violenza e di quella sofferenza non è stato semplice. Per darti un’idea: uno dei nostri investigatori che si trovava in un allevamento di pollame in Veneto si è licenziato quando gli è stato chiesto di uccidere di propria mano dei polli. Polli troppo piccoli, che essendo cresciuti meno velocemente e non raggiungendo le misure standard erano ormai considerati “scarti”, non abbastanza profittevoli. “Una perdita in termini di mangime”, ha specificato il capo.

Immagino che anche in termini di budget abbiate avuto difficoltà.

Enormi difficoltà. Io e Pablo D’Ambrosi, che ha collaborato alla realizzazione di FoodForProfit, abbiamo lavorato gratuitamente. In tutto, il documentario è costato 250.000 euro. Questi soldi sono stati reperiti grazie alle donazioni di fondazioni e privati cittadini che hanno deciso di scommettere su un progetto che era ancora su carta. Ci hanno dato una fiducia incredibile, e questo ci ha fatto percepire un grande senso di responsabilità. In più, non abbiamo avuto né un produttore né, inizialmente, un distributore. Abbiamo fatto tutto da soli, inventandoci dei mestieri che sono complicatissimi. Mi sono trovata in prima persona a sbrigare tutte le pratiche presso il Ministero, pratiche a dir poco kafkiane. Alla fine, però, ce l’abbiamo fatta. Ci tengo a sottolineare che tutto ciò non sarebbe mai stato possibile senza l’aiuto dei cittadini, che hanno creduto nella forza delle nostre immagini e hanno organizzato spontaneamente proiezioni in giro per l’Italia, rivolgendosi direttamente ai cinema locali per chiedere di proiettarci.

FoodForProfit è uscito soltanto da poche settimane ma sta già registrando un grande interesse. Quali sono state, fino a ora, le reazioni del pubblico in sala?

Sicuramente stiamo riscontrando un’affluenza e un entusiasmo formidabili da parte del pubblico. Non me l’aspettavo, specie considerando alcune circostanze legate alla logistica. Per motivi contrattuali, i cinema che ci ospitano stanno cercando di incastrare FoodForProfit dove possono. Questo significa che la maggior parte delle proiezioni si svolge durante la settimana, tipicamente all’ora di pranzo o all’ora di cena. A quanto pare, la gente ha talmente voglia di venire in sala che accetta persino di venire a mangiare al cinema. È una cosa che mi ha fatto molto sorridere.

Quanto alle reazioni più ricorrenti, penso che tutto possa essere racchiuso da una lettera che ho ricevuto da una bambina di 9 anni e che ci è stata fatta recapitare dal papà dopo la messa in onda del servizio de Le Iene, che raccontava il documentario. In questa lettera, la bambina mi chiede fondamentalmente due cose. La prima: “perché commettiamo queste violenze sugli animali? La seconda: “cosa posso fare io per aiutare gli animali?”. Quando l’ho letta sono scoppiata a piangere. In queste parole c’è tutto il senso profondo del nostro lavoro: lo stupore più puro negli occhi di una bambina che non riesce a spiegarsi come mai gli adulti si siano inventati un sistema crudele in cui gli animali vengono torturati soltanto per il profitto. Al tempo stesso, ci stiamo accorgendo che il documentario sta smuovendo molte coscienze e sta avendo un impatto diretto sulla vita della gente. Usciti dalla sala, gli spettatori ci dicono di sentirsi pronti a fare la propria parte. Sto ricevendo messaggi da parte di persone che hanno già cambiato il loro modo di fare la spesa.

L’industria zootecnica italiana sembra molto più risentita. Sappiamo che state ricevendo molte diffide. Forse è proprio questa la prova che avete colpito nel segno.

Assolutamente. La diffida che le rappresenta tutte è quella che ci è arrivata qualche giorno fa da un’azienda che non è in alcun modo coinvolta nell’indagine di FoodForProfit. Stiamo assistendo a un vero e proprio cortocircuito. Le aziende ci diffidano dal mostrare il sistema di cui loro stesse fanno parte. Fondamentalmente, è come se stessero diffidando sé stesse.

Se c’è una cosa che le proiezioni del documentario e i dibattiti durante i cineforum stanno mettendo in evidenza è l’esistenza di due mondi contrapposti, a mio parere inconciliabili. Da una parte c’è chi considera lecito sfruttare degli esseri viventi per profitto, e tenta invano di coprire la brutalità di certe pratiche ricorrendo all’utilizzo di termini assolutamente privi di significato come “benessere animale” o “sostenibilità ambientale”, di fatto mentendo al consumatore. C’è poi chi invece questo sistema lo rifiuta e sta cercando di opporsi in ogni modo, sia attraverso l’adozione di pratiche di consumo più consapevoli, sia facendo pressione sulle istituzioni per chiedere un cambiamento radicale del sistema. Mi auguro che il secondo mondo prevalga sul primo. Non solo per permettere agli animali di vivere una vita dignitosa e priva di abusi, ma anche per assicurare un futuro al nostro Pianeta. Non è credendo nel mito della crescita e della sovrapproduzione che ci salveremo dalle conseguenze nefaste del cambiamento climatico.

Cosa direbbe a chi non ha ancora visto il documentario per convincerlo a guardare FoodForProfit?

Solitamente chi esce dalla sala mi dice che è arrabbiato, ma che allo stesso tempo vuole fare qualcosa. A chi non ha ancora visto FoodForProfit dico che questi argomenti riguardano tutti noi, non soltanto come singoli ma come collettività. Non siamo più legittimati a dire “non mi interessa”, a guardare dall’altra parte. È un nostro dovere informarci e diventare consapevoli sul tema. Poi, nel privato, ognuno può prendere le decisioni che più rispecchiano il proprio credo e la propria anima. L’indifferenza, però, non è più un’opzione.

Leggi anche
Tutela degli animali
di Matteo Cupi 3 min lettura
Animali
di Matteo Cupi 3 min lettura