Futuro

Le regole per il rilancio

Le istituzioni europee innovano le normative nel digitale e difendono l’industria continentale nel settore automobilistico. Ma da sole non possono rilanciare il sistema produttivo europeo
Credit: Shutterstock
Tempo di lettura 5 min lettura
14 settembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Nei giorni in cui Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea e del Consiglio dei Ministri italiano, accetta di occuparsi dell’antitrust europea, entra in vigore il Digital Markets Act, un regolamento che fa fare un salto di qualità alla salvaguardia della competizione digitale in Europa.

Intanto, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, Ursula von der Leyen propone l’istituzione di una sorta di Ipcc per l’intelligenza artificiale.

Nello stesso tempo, l’Europa lancia un’indagine sui sussidi ai produttori di auto elettriche cinesi. L’Europa vorrebbe evitare che quei prodotti diventino talmente convenienti da distruggere la capacità competitiva dei produttori europei, come in passato è accaduto nel settore dei pannelli solari. Anche perché comunque, il controllo cinese sui metalli essenziali per la produzione di batterie ed elettronica resta una minaccia fondamentale per l’industria europea.

Insomma, non si può dire che la Commissione non sia molto attiva per far valere le ragioni europee nel quadro della competizione internazionale, sia nei confronti degli Usa che dominano il mondo delle piattaforme digitali e dell’intelligenza artificiale generativa che della Cina fortissima nelle tecnologie per la transizione ecologica.

La questione è che le regole messe in campo dalla Commissione e le azioni diplomatiche portate avanti per difendere l’industria europea hanno enorme importanza ma non possono essere sufficienti. Perché nello stesso tempo occorre che le imprese europee si diano una mossa per rientrare nella competizione su tutti i fronti dell’innovazione strategica: digitale, elettronica, tecnologie verdi.

Non si ha l’impressione che ci sia una forte spinta delle grandi imprese europee in questa direzione. Anzi.

La difesa dei cittadini europei dalle storture introdotte nel sistema mediatico dalle grandi piattaforme dei social network americani e cinesi sviluppata dalla Commissione con il Digital Services Act e il Digital Markets Act può avere importanti conseguenze sulle policy di quelle aziende. Ma in teoria sarebbe anche una grande occasione per la nascita di nuove piattaforme europee che potrebbero essere disegnate fin dall’origine in modo da essere adatte a garantire i diritti dei cittadini.

Nuove piattaforme che non abbiano algoritmi tali da favorire la radicalizzazione del dibattito, che non siano tanto facili da usare per la disinformazione, che sostengano la qualità della conoscenza: ci sono enormi spazi per un’offerta che risponda alla scarsa qualità offerta dalle varie piattaforme che oggi vanno per la maggiore. Nessuno dice che sia facile. Però, le regole europee sono molto favorevoli. Eppure, per adesso, non si vede una fioritura di soluzioni imprenditoriali europee che si affacciano all’attenzione e possano cambiare gli equilibri nei media digitali.

Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale vale qualcosa di simile, anche se il contesto è meno maturo da tutti i punti di vista.

L’AI Act non è pronto ma è in dirittura d’arrivo. Un centinaio di aziende, tra le quali Siemens, Heineken, Airbus hanno pensato bene di dire che le regole europee sull’intelligenza artificiale potrebbero frenare l’innovazione.

Peccato che, in generale e con le dovute eccezioni, le imprese europee tendano a rivolgersi a fornitori o professionisti americani per introdurre l’intelligenza artificiale nei loro processi invece di decidere grandi investimenti per coltivare la loro propria competenza in materia. E l’apertura dei supercalcolatori europei alle imprese europee per sviluppare i loro modelli di intelligenza artificiale è stata colta dalla francese Mistral, che è una startup di qualità, e da diversi progetti pubblici: le grandi imprese sono altrettanto attive? Siamo ai primi passi. Ma anche qui le grandi imprese europee sembrano meno imprenditoriali e innovative di quello che sarebbe necessario.

Nell’automobile, poi, i giganti europei hanno giudicato con sufficienza colpevole l’esordio di Tesla e hanno dato troppo poca importanza alla crescita delle case cinesi. Hanno cambiato idea solo quando la capitalizzazione della compagnia di Elon Musk ha superato quella dei grandi gruppi automobilistici tradizionali. Ma la loro capacità tecnologica, il loro design, lo stesso pensiero strategico e lungimirante che avevano usato per crescere nel mondo dei motori a combustibili fossili non si sono viste per crescere nel mondo dell’elettrico.

È comprensibile in parte. Il grande momento del digitale europeo era stato quello dei telefonini.

Era basato sullo standard Gsm, grande punto di partenza di un’intera industria, e sulla collaborazione delle compagnie telefoniche. Quello fu un grande successo ma anche un impedimento per innovazioni radicali: le compagnie telefoniche non gradivano iniziative troppo ambiziose da parte di Nokia e Ericsson.

Apple ruppe gli equilibri senza chiedere il permesso a nessuno. Allo stesso modo le aziende automobilistiche sono vissute in un contesto fondamentalmente definito dall’industria petrolifera e non hanno mai combattuto per un’autonomia infrastrutturale che le avrebbe rese, precocemente, più libere di innovare. Sarebbe stato chiedere troppo a compagnie che avevano comunque l’ossessione del trimestre piuttosto che quella del decennio. Ma non stupisce che oggi la stiano pagando.

Il fatto è che le innovazioni normative volute dalla Commissione sono anche opportunità per innovazioni tecnologiche radicali, che vadano nella direzione di garantire la competizione, combattere l’emergenza climatica, salvaguardare i diritti dei cittadini. E le imprese europee che colgano questa opportunità, per ora, non sono molto visibili. Non è detta l’ultima parola.

Leggi anche
Economia
di Simone Spetia 1 min lettura
Futuro
di Sergio Ferraris 4 min lettura