Infertilità: parliamone ora (e meglio)
Una curva che scende, inesorabile. La crisi della natalità in Italia è ormai conclamata: si fanno sempre meno figli (nel 2022 per la prima volta i nuovi nati sono stati meno di 400.000) e sempre più tardi. Instabilità, precariato, incapacità del mercato del lavoro di valorizzare il capitale femminile e mancanza di strumenti a supporto della genitorialità sono solo alcune delle cause che portano a una contrazione delle nascite che sembra inarrestabile.
Eppure, come vedremo, un’analisi del farmaco-economista Mark Connolly e Merck Italia mostra come supportare concretamente il desiderio di genitorialità (in questo caso di chi i figli non può averli) innescherebbe un circolo virtuoso i cui effetti positivi si estenderebbero all’intera società.
Ma perché i numeri calano drasticamente? Oltre a quelli che abbiamo elencato, ci sono motivi strutturali: la denatalità non è un fenomeno nuovo ma, ha ricordato la direttrice dell’Istat Sabrina Prati nel corso di un evento organizzato recentemente a Roma da Farmindustria,«protratto e persistente», che negli ultimi anni ha ridotto la popolazione femminile, in particolare quella in età fertile, riducendo conseguentemente il numero delle nascite. Altri sono legati ai cambiamenti dei flussi e alle dinamiche migratorie. Altri ancora, alla diminuzione del numero dei matrimoni, in un Paese in cui ancora il 60% delle nascite avviene in coppie sposate.
Il meno davanti al numero dei nuovi nati, però, è legato soprattutto al calo della fecondità, ovvero il numero medio di figli per donna. Perché sia garantito il ricambio generazionale, non deve scendere sotto 2,1. In Italia è pari a 1,25, il dato più basso d’Europa. E se è vero che il valore è identico a quello del 2001, in questi 20 anni c’è stato un cambiamento profondo, ovvero l’aumento dell’età media al primo parto, passata da 30,5 anni a 32,4.
Perché questo è importante? Perché non solo, spiega ancora Prati, «il rinvio protratto nel tempo si traduce spesso nella rinuncia definitiva ad avere figli», ma maggiore è l’età e minori sono le possibilità di concepire. La possibilità di rimanere incinta, infatti, “risulta massima tra i 20 e i 30 anni, subisce poi un primo calo significativo, anche se graduale, già intorno ai 32 anni e un secondo più rapido declino dopo i 37 anni”, spiega il Ministero della Salute.
Tra i motivi per cui si fanno sempre meno figli ce n’è uno di cui si parla meno frequentemente, ma che meriterebbe invece un’attenzione particolare: molti uomini e donne non riescono ad averli naturalmente. L’infertilità (che l’Oms definisce come “l’assenza di concepimento dopo 12/24 mesi di regolari rapporti sessuali mirati non protetti”) è una condizione che, dice l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), riguarda il 15% delle coppie italiane (e il 17,5% della popolazione mondiale, secondo gli ultimi dati dell’Oms, vale a dire 1 persona su 6), eppure è ancora molto spesso un tabù.
Se ne parla ancora come una condizione esclusivamente femminile, quando gli studi dimostrano che interessa sia uomini che donne, e ancora troppo poca è l’attenzione agli aspetti che possono danneggiarla: il fumo, i disturbi alimentari, le malattie sessualmente trasmissibili trascurate ma anche l’inquinamento e particolari condizioni dell’apparato riproduttivo che potrebbero essere affrontate sottoponendosi a esami diagnostici e trattamenti appropriati.
Soprattutto, però, la discussione sulla fertilità, intrecciata e spesso sovrapposta a quella sulla natalità, è ancora caratterizzata da toni allarmisti o imperativi che troppo spesso si traducono in un elemento di pressione sociale (“dovete fare figli, ora, prima che sia troppo tardi”) che grava in particolare sulle donne. Su quelle che i figli non vogliono averli, prima di tutto, quel 5% di persone che si dichiara childfree per scelta e che che ancora deve scontare quella che per molti è una “colpa” contro natura. Ma, soprattutto, su quelle che i figli non possono averli, per cui questa impossibilità si traduce spesso in termini di “fallimento” e senso di colpa, quando non di veri e propri disagi psicologici.
Una diagnosi di infertilità si accompagna spesso a una perdita di fiducia, in sé e nel proprio rapporto, spiega l’Iss, ma anche a incertezza e perdita di controllo sul proprio corpo e sulla propria vita. “La percezione del tempo cambia profondamente, […] il suo cammino inarrestabile, è percepito con una acutezza dolorosa”. Anche le relazioni familiari e sociali (che possono diventare continue occasioni di confronto con la propria infertilità) vengono profondamente condizionate. Prima di tutte quella con il partner, che può risentirne sia in termini interpersonali che a livello di sessualità, “impoverita” dal punto di vista affettivo ed erotico.
È certo, scrive ancora l’Istituto Superiore di Sanità, che “quasi tutte le donne che affrontano un trattamento per l’infertilità mostrano, sia pure in misura diversa, sintomi di ansia, irritabilità, profonda tristezza, auto colpevolizzazione, calo di energie e di motivazione, tendenza all’isolamento e ipersensibilità. Molto comune è il sentimento di colpa per scelte o comportamenti passati che vengono ritenuti causa di infertilità. Una reazione opposta, anch’essa comune, è la rabbia contro il partner, contro amici o conoscenti che hanno bambini, contro chi si permette di dare consigli fuori luogo e non richiesti”. Eppure, questa prospettiva difficilmente trova spazio e voce.
Per questo, ogni 22 settembre si celebra la Giornata nazionale di informazione e formazione sulla fertilità. Una giornata di sensibilizzazione in linea con i principi della politica europea Health 2020: The European policy for health and well-being e dell’Agenda 2030 dell’Onu, non solo per ricordare l’importanza della fertilità a livello individuale (e dei modi in cui tutelarla e preservarla) ma anche il ruolo che ricopre per l’intera società.
Sì, perché gli effetti del calo delle nascite hanno un impatto non solo sulle vite dei singoli, ma anche su tutta la popolazione. Oggi, ma soprattutto in futuro. In Europa siamo il Paese con la minore presenza di giovani under 25, l’unico a essere sceso sotto quota 23%. Questo significa che abbiamo quasi 7 milioni di under 25 in meno rispetto alla Francia, che ha la nostra stessa aspettativa di vita e dimensione demografica.
Il 1 gennaio 2022 c’erano 187,9 anziani ogni 100 giovani. Nel 1951 erano 31. Nel 2050 potrebbero essere 297. Questo significa 6 milioni di persone in età da lavoro in meno e una platea sempre più ristretta di chi deve sostenere una popolazione che invecchia progressivamente. Nel 2070, l’Italia potrebbe aver perso 12 milioni di persone. Per questo, sciogliere “l’inverno demografico” in una nuova primavera avrebbe un impatto profondo sull’intera società.
Per capire meglio quale sarebbe l’effetto a livello socio-economico proviamo a fare il ragionamento inverso, cercando di capire cosa significherebbe concretamente aumentare il numero delle nascite.
Per farlo, possiamo aiutarci con il modello fiscale basato sull’epidemiologia dell’infertilità sviluppato da Merck Italia in collaborazione con Mark Connolly, già autore dello studio The costs and consequences of assisted reproductive technology: an economic perspective. Basandosi sul numero potenziale delle coppie che avrebbero potuto accedere a un trattamento per l’infertilità in Italia, hanno calcolato che nel 2018 sarebbero potuti nascere 35.093 bambini in più rispetto ai 12.958 effettivamente nati grazie alla Procreazione Medicalmente Assistita. Bambini che avrebbero portato in dote 18,3 miliardi di euro di entrate fiscali lorde aggiuntive nel corso della loro vita.
Potrebbe sembrare strano sentir parlare di figli in termini strettamente economici e funzionali. Eppure, come ha spiegato Jan Kirsten, Presidente e Amministratore Delegato di Merck Healthcare Italia, «pensare a un modello di “utilità economica” della fertilità può sembrare troppo visionario o – al contrario – utilitaristico. Ma la virtù sta proprio nel sapere mettere a fattor comune due obiettivi apparentemente slegati, nel tenere insieme il valore personale e quello sistemico del “diventare genitori”».
Nonostante in Italia ogni anno 584.200 coppie di età compresa tra i 20 e i 44 anni debbano confrontarsi con l’infertilità, solo il 27% riesce ad accedere ai trattamenti di Pma: 211.257 coppie ne restano escluse. Non solo perché i percorsi sono lunghi e costosi (parliamo di cifre che possono andare anche dai 3 ai 7.000 euro per ciclo) ma anche perché le strutture non sono uniformemente distribuite sul territorio: il 60% si trova in Lombardia, Campania, Veneto, Lazio e Sicilia. Ma a variare sensibilmente sono anche i servizi offerti dal Sistema Sanitario Nazionale: nonostante la Pma sia stata inserita nei Lea, i livelli essenziali di assistenza, già nel 2017, in assenza di un apposito Decreto tariffe la situazione è rimasta invariata.
L’adeguatezza dell’offerta dei trattamenti di Pma in Italia (valutata misurando l’offerta di cicli totali di trattamenti per tutte le tecniche di II e III livello per milione di abitanti) è inferiore alla media europea, dice l’Iss. Per il 2020, si attesta a 1.117 cicli, mentre il dato del 2017 dell’European IVF Monitoring è di 1.435.
Su questo, però, ha avuto un peso anche l’impatto della pandemia di Covid-19: fino al 2019 i bambini nati con la Pma (circa 14.000, il 3% di tutti i nuovi nati) erano in continua crescita. Ma secondo la recente Relazione al Parlamento del ministero della Salute sulla Legge 40 del 2004 in materia di Procreazione medicalmente assistita (Pma), dal 2019 al 2020 si è osservata un forte calo: le coppie trattate sono scese da oltre 78.000 a 65.000, i cicli effettuati da 99.000 a 80.000 (-19%) e i bambini nati vivi da oltre 14.00 a 11.000 (-20%). Una perdita che, come abbiamo visto, si traduce non solo in criticità di tipo personale e demografico, ma anche economico.
Che fare, quindi? Parlarne, innanzi tutto. Parlarne nel modo giusto. E spingere per una nuova consapevolezza, non solo a livello individuale ma collettivo, dell’impatto economico e sociale della fertilità, e del diverso ruolo che ciascuno di noi può svolgere. Un ruolo che le istituzioni non possono ignorare: “un finanziamento appropriato dei servizi Pma sembra rappresentare una sana politica fiscale”, ha scritto Connolly nel suo studio.
“Mentre il trattamento della fertilità porta alla creazione della vita umana, il risultato desiderato per le coppie sterili, pochi studi hanno quantificato l’impatto economico più ampio che questi bambini rappresentano per la società. […] Dato l’elevato ritorno sull’investimento stimato per i bambini nati con Pma, ha senso sia dal punto di vista clinico che economico fornire cure a prezzi accessibili a coloro che ne hanno bisogno”.