La caccia alle balene e la difesa delle tradizioni

Mentre l’Islanda annuncia di avere ripreso la caccia alle balene, in un altro oceano, il Pacifico, il trattato commerciale Indo-Pacific Economic Framework promosso dall’amministrazione Usa del presidente Joe Biden per rinforzare i rapporti commerciali tra varie nazioni tra le quali il Giappone e la Corea del Sud, stava per saltare, perché gli Stati Uniti avevano chiesto al Giappone di cessare la caccia alle balene.
Il Giappone prosegue da anni la caccia alle balene giustificandola con scopi scientifici e commercializzando poi la carne per evitare sprechi.
Al di là dell’ipocrisia della motivazione, è un dato di fatto che in Giappone il consumo della carne di balena sia scemato da 233.000 tonnellate nel 1962 a 1.000 tonnellate nel 2021, tant’è che - nel tentativo di rilanciarne i consumi - si sta provando anche a venderla attraverso distributori automatici.
Come si può allora spiegare la resistenza all’abolizione di una pratica che ha sempre meno proseliti, al punto da fare saltare negoziati che rispondono a esigenze geopolitiche importanti, quali rendere maggiormente autonomi molti stati dall’influenza cinese?
Il tema appare legato alla tutela dell’identità e delle tradizioni culturali. Anche se per quantitativi irrisori, i giapponesi, almeno secondo i critici americani, per ragioni tradizionali sono ancora legati a questo alimento e non vogliono accettare l’imposizione di standard etici da parte di altre culture, come avrebbe voluto fare l’amministrazione Biden, che ha prontamente fatto cadere la richiesta per non compromettere il buon esito dell’accordo.
Standard etici e valori tradizionali: il difficile compromesso tra evoluzione e tradizione. Argomento, questo, spesso non considerato dagli occidentali nella relazione con altre culture, sebbene si tratti di un terreno scivoloso che si presta a diversi approcci.
Da un lato abbiamo il tema dei diritti umani, dove spesso gli antioccidentali hanno facile gioco nel dire che la politica occidentale nei Paesi in via di sviluppo come quelli africani sarebbe paternalistica, quando non aggressiva, perché pretende il rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali, laddove cinesi e russi non pongono condizioni agli aiuti. Su questo fronte resta il fatto che è difficile ipotizzare che su tali temi vi possa essere alcun tipo di negoziazione: se ti aiuto, accetti il fatto che i diritti fondamentali devono essere rispettati.
Dall’altro lato, però, vi sono scale di valori suscettibili di diverse interpretazioni all’interno delle stesse società occidentali e questo è il campo dei rapporti tra genere umano e mondo animale e in generale tra le altre specie viventi.
Infatti, se possiamo dire che nessuno dubiti che le balene debbano essere preservate dall’estinzione, a volte ci dovremmo porre il dubbio sulla scelta di quali animali possano essere utilizzati per scopi alimentari e quali no, fermo restando che si dovrebbero sempre evitare pratiche cruente.
E così in Occidente, a parte i vegani che assumono una posizione drastica e quindi coerente, si accettano le macellazioni di bovini, suini e ovini, e si storce il naso quando si parla di equini, per non considerare poi le reazioni quando si tratti di cani o gatti.
Basta però allontanarsi un poco dal nostro cortile e vedere che le opinioni possono essere ben diverse e difficilmente superabili sulla base dei propri credo personali.
Da qui la necessità di un approccio più laico: ricordo sempre la reazione di disgusto che provò la figlia di un mio amico ugandese quando le dissi che mangiavo le chiocciole e la reazione del padre che la zittì dicendole che lei non era da meno in quanto mangiava i grilli.
Sì i grilli! Ovvero insetti, sui quali ci siamo recentemente aperti anche noi europei (del resto l’adagio “quando a tordi e quando a grilli” la dice lunga su come la fame possa cambiare le nostre abitudini e le nostre sensibilità alimentari fin da tempi remoti).
E sugli insetti voglio soffermarmi per evidenziare come le nostre opinioni possano essere spesso fallaci o, quanto meno, non ben ponderate.
Un recente studio sui moscerini della frutta ha rilevato che questi insetti, ritenuti fastidiosi dai più e la cui vita dura qualche settimana, accelerano il proprio invecchiamento quando notano la morte dei propri simili.
Al di là della ragione, che potrebbe essere dovuta a un’accelerazione della riproduzione per la preservazione della specie (un po’ come le piante da fiore fanno sbocciare i propri fiori in carenza di acqua per poterne fare propagare il polline al fine di generare nel momento in cui è più probabile la morte), gli studi hanno rivelato che alla vista della morte dei consimili si attiva una parte specifica del cervello dell’insetto normalmente inerte: immagine romantica che ci insegna come le differenze tra esseri viventi siano a volte molto limitate e labili se anche un insetto così minuscolo e considerato insignificante dai più appare reattivo alla morte dei consimili.
Da qui la difficoltà nel creare una gerarchia tra le specie viventi e la relativa visione agli altri. Da qui, soprattutto, la difficoltà oggettiva di imporre agli altri un ordine animale, tra sacrificabili e non, che non sia la preservazione della biodiversità e l’assenza di pratiche cruente.