Culture

I nuovi poeti tra impegno, amore e resistenza

Collettivi che sfidano il regime, come il gruppo di autori clandestini Rohingya in Myanmar. Star dei versi glamour, come Amanda Gorman negli Stati Uniti. Ma anche tanta street poetry popolare italiana, che dalla periferia si prende la scena sui muri delle città
Una poesia di strada di Er Pinto a Roma.
Una poesia di strada di Er Pinto a Roma.
Caterina Tarquini
Caterina Tarquini giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
25 febbraio 2022 Aggiornato alle 14:27

Svoltato un angolo e sbucati in uno dei tanti vicoli di Roma o di altre città italiane, durante una passeggiata notturna, vi sarà capitato di vedere un lampione illuminare, quasi come un riflettore puntato volutamente, alcuni versi scarabocchiati sui muri, di solito affollati da slogan politici, parolacce e giuramenti di eterno amore.

È una delle molte metamorfosi della poesia, illustre antenata della musica, che riesce a dispetto dei secoli ad attualizzarsi, ora assumendo l’aria scanzonata della street poetry, ora quella più patinata e glamour della poetessa, attivista e modella afroamericana Amanda Gorman che alla cerimonia di insediamento del Presidente Biden ha pronunciato di fronte ai microfoni di tutto il mondo la sua “The hill we climb”.

In Italia Er Pinto, autore di componimenti e aforismi nella Capitale, ha cominciato disseminando le sue parole sui mattoni e gli intonaci scrostati della città. “Sono cresciuto in un’ex borgata romana”, spiega “tra una partita di pallone e una birra in compagnia, in un contesto in cui si parla un linguaggio colorito, con radici profonde”. Quando racconta come è nato il suo progetto poetico, spiega che lo hanno sempre affascinato “i proverbi, i dialetti locali e in generale qualsiasi modo di parlare che non fosse convenzionale, dagli striscioni allo stadio alla musica rap”.

E aggiunge: “Ho iniziato dieci anni fa, poco più che ventenne e dopo aver pubblicato alcuni componimenti sul web, assieme ad altri ragazzi di un collettivo che all’epoca frequentavo, ho deciso di scrivere le mie rime sui muri. Sentivo il bisogno di fare qualcosa di reale, che non puntasse solo a qualche like o contatto virtuale. Così ho scelto la mia cifra stilistica: una via di mezzo tra un graffito e una pasquinata”. Il giovane artista di strada ha all’attivo già un paio di raccolte su carta, Il peso delle cose e Mal di mare, senza contare la neonata casa editrice indipendente Sine luna, fondata durante la quarantena, per promuovere la poesia underground e l’immaginario urban.

Roma non è l’unica metropoli popolata dai poeti di strada. A Milano c’è Ivan Tresoldi, in arte solo Ivan, che dal 2003 dipinge le sue “scaglie” - brevi componimenti poetici – per le vie del capoluogo lombardo. Il suo e quello degli altri artisti è un atto rivoluzionario, che restituisce alla poesia una dimensione popolare e collettiva, sfidando il monopolio dei cattedratici.

Ivan, infatti, compie le sue incursioni poetiche in pieno giorno, coinvolgendo il pubblico e cercando un confronto durante la realizzazione dell’opera. Crede che la poesia, quella di strada, sia un linguaggio universale, il più antico e originale di qualsiasi civiltà.

La pensa così anche Er Pinto. “Spero che in Italia la poesia riesca a trovare un posto nella cultura di massa, che si smetta di considerarla noiosa, scolastica o elitaria. L’obiettivo della street poetry è di arrivare anche a chi non aprirebbe mai un libro di poesie o a chi critica la urban art senza conoscerla. I versi che io stesso lascio in giro per la città sono un concentrato delle mie raccolte cartacee. Un po’ come il campioncino che ti regalano in profumeria”.

Se per i muralisti la poesia deve nascere da un’esperienza condivisa o deve recarla con sé, i collettivi vivono della partecipazione e dei contributi dei volontari. È il caso del Movimento per l’Emancipazione della Poesia, una vera e propria rete alternativa, diramata a Firenze e a Milano, un network di creazione e diffusione di poesia contemporanea. Come dichiara il manifesto dell’iniziativa, sebbene sia letta sempre meno, la poesia viene ancora scritta e non ha perso la capacità di parlarci.

È tuttora portatrice di verità. Soprattutto in determinate aree geografiche può tramutarsi nella più alta e sublime forma di resistenza, alla tirannia e alla sopraffazione.

“Farò della parola tumulto e del tumulto schiuma d’onda” recita una potente riscrittura di Cesare Pavese dei Dialoghi di Leucò. È un verso che riassume in sé il senso ultimo del linguaggio poetico, quello che, parafrasando il pensiero del poeta francese René Char, deve recare con sé “tempesta” e “sovversione”.

In Myanmar, per esempio, poesia, scrittura e resistenza politica sono legate a doppio filo, un sodalizio risalente al movimento nazionalista sotto il dominio coloniale britannico. Ancora oggi i militari, dopo la presa di potere del generale Ne Win nel 1962, vedono di sott’occhio i poeti.

Come raccontato di recente sul Guardian, un gruppo di rifugiati Rohingya, una minoranza perseguitata dal regime militare - in prevalenza di etnia Bamar - e costretta a fuggire in Bangladesh, ha fondato nel campo profughi in cui sono confinati un collettivo chiamato “Art Garden Rohingya”, che ha portato alla luce centinaia di poesie in rohingya, birmano e inglese.

Non è un caso che l’arma imbracciata per combattere le violenze e i soprusi dei militari del Myanmar sia la poesia: la sua unicità risiede, secondo Er Pinto, nel fatto che “chiunque legga ad alta voce o a mente una poesia, senza avere particolari attitudini, in quel momento la vivrà dentro di sé. Si tratta di un’intimità immediata che è difficile provare al cospetto di altre forme d’arte, davanti a un dipinto o una scultura”.

Leggi anche
Xi'e going on a bear hunt, Badiucao
Diritti
di Maria Michela D'Alessandro 2 min lettura