Clima, Fabio Deotto: «Dobbiamo scegliere che strada percorrere»

Ci credevamo intoccabili. D’altronde, il genere umano è predisposto a non credere che gli avvenimenti geograficamente lontani possano realmente colpire. Non per colpa, né per critica. È semplicemente così, da sempre. Solo che poi arrivano: con loro, le conseguenze.
Con questo pensiero Fabio Deotto, giornalista e autore del libro L’altro Mondo - La vita in un pianeta che cambia (Bompiani Editore, 336 pagine, 19 euro), intraprende un viaggio nelle principali mete internazionali per guardare coi suoi occhi, toccare con mano e condividere con i lettori gli effetti del cambiamento climatico.
Un libro, un saggio e un racconto in cui l’autore si sofferma su tutti quegli aspetti che nessuno ha mai messo davvero in evidenza e che, a distanza di 2 anni dalla prima pubblicazione dell’opera, sono più centrali che mai. Deotto ne ha parlato con La Svolta.

Riferendoci al suo libro, L’altro Mondo, nel quale racconta gli effetti del cambiamento climatico che ha potuto osservare: cosa l’ha spinta a intraprendere l’esperienza e in che modo ha scelto le destinazioni?
Da tempo volevo raccontare la crisi climatica come l’emergenza che è, andando di persona a vedere come in alcuni luoghi la vita umana fosse già stravolta dalle ricadute del riscaldamento globale. Ho scelto tappe abbastanza insolite, come le Maldive, Miami Beach e la Lapponia: luoghi di cui il lettore avesse un’immagine ben definita, ma sempre meno sovrapponibile alla realtà. Volevo raccontare e mostrare come la crisi climatica stesse già trasformando i nostri punti di riferimento, anche se in quel momento non avevo ancora chiaro come raccontarla.
Quando ha cominciato ad avere l’idea di un libro?
Quando ho raggiunto la prima destinazione ho capito che non era sufficiente prendere atto dei cambiamenti che i vari luoghi stavano subendo. Sebbene avessi passato mesi e mesi a prepararmi, a raccogliere informazioni e avessi una panoramica approfondita di quello che mi aspettava, c’erano aspetti che il mio sguardo non era equipaggiato a individuare.
Ovvero?
Prendo come esempio le Maldive: avevo deciso di non visitare i resort, che altro non sono che lingue di sabbia disabitate e trasformate in alberghi di lusso. Sapevo che nella capitale avrei trovato condizioni di sovraffollamento e scarsità idrica. Ma quando sono andato a visitare le “vere Maldive”, ossia le isole meno battute, appena sceso dalla barca quello che vidi mi sembrava un paradiso terrestre. Mi ci è voluto del tempo per incamerare i dettagli del declino: le palme che sembravano inclinate dal vento in realtà stavano crollando per colpa dell’erosione costiera, le spiagge si accorciavano a vista d’occhio, tanto che in alcuni punti avevano gettato blocchi di cemento per impedire che le correnti e l’innalzamento delle acque se le portasse via. Lì ho capito che oltre a studiare questo declino, era necessario comprendere perché siamo così poco equipaggiati a riconoscerlo.
C’è un’altra tappa del libro a cui tiene particolarmente?
Una di quelle che mi ha fatto più effetto è la Louisiana, che negli ultimi anni sta sprofondando nel Golfo del Messico. Dopo aver visitato New Orleans e aver trovato una città che già è alcuni metri sotto il livello del mare, mi sono spinto verso le parti meno protette della foce del Mississippi. A un certo punto, proseguendo verso Venice, ho visto che la strada che stavo percorrendo si tuffava nell’acqua. Sulle cartine online quella strada è ancora ben tracciata, eppure quel giorno era inabissata e la cittadina irraggiungibile.
Cos’era successo?
Colpa di una serie di concause: il terreno della Louisiana è relativamente giovane, e la sua integrità dipende dal sedimento trasportato dal Mississippi. Oggi però il fiume è intrappolato negli argini, e quel sedimento non arriva più a nutrire i terreni che si vanno compattando. Questo, unito alle trivellazioni e all’innalzamento delle acque fa sì che la costa meridionale dello stato stia sparendo a un ritmo rapidissimo.
“Crisi climatica”, “cambiamento climatico”: qual è la differenza?
Nel libro ho scelto di utilizzarli entrambi, perché credo che raccontino 2 aspetti della questione: da un lato, stiamo attraversando un cambiamento mai visto nella storia della civiltà umana; dall’altro, il fatto che questo cambiamento sta mettendo in crisi ogni giorno di più il funzionamento dei nostri sistemi ecologici, sociali e anche economici. Il termine crisi climatica, come “emergenza climatica”, restituisce meglio la condizione in cui ci troviamo, e rende più chiara la necessità di agire in modo rapido.
In che modo?
C’è bisogno di un ripensamento trasversale del nostro modo di stare al mondo. Non parlo solo di stili di vita e consumi, ma di un intero sistema economico e produttivo. Operare questo cambio di paradigma richiede un enorme sforzo collettivo e culturale. Tra le altre cose, dobbiamo prendere atto dei limiti cognitivi e culturali che ci rendono difficile comprendere fino in fondo l’emergenza in corso e immaginare che il mondo possa cambiare radicalmente in meglio. Sono tutti sforzi che dobbiamo fare alla svelta, perché la situazione si sta aggravando sotto i nostri occhi.
Siamo a un punto di non ritorno?
Il concetto di punto di non ritorno è pericoloso. Esistono limiti planetari che abbiamo già superato, limiti che stiamo superando e cambiamenti che diventeranno irreversibili. Cercare di individuare un solo punto di non ritorno, ossia una data ultima, rischia di suggerire l’idea per cui ancora non ci troviamo in una situazione emergenziale. Il punto è che ci siamo già dentro, e dobbiamo agire per evitare di trovarci in una situazione ancora peggiore. Dovremmo comportarci come se stessimo superando ogni giorno un punto di non ritorno diverso, senza chiedersi quando sarà troppo tardi. È già tardi.
Se dovesse immaginare di riscrivere il suo libro tra 10 anni, come vedrebbe il mondo?
Dipende dalla strada che avremo intrapreso, se quella più luminosa o quella più cupa. Tutto sta in questo bivio: agiremo e argineremo i danni o andremo incontro al collasso? È utile fare entrambi gli esercizi di proiezione, ma pensare a come le cose potranno andare storte ci viene più facile. Perciò, preferisco concentrare le energie nell’immaginare il tipo di futuro che raggiungeremo se prenderemo la strada più luminosa.
Non siamo abituati a immaginare un mondo radicalmente diverso da quello in cui abbiamo vissuto, ma tutti i dati che abbiamo a disposizione ci dicono che la decarbonizzazione può condurci a un mondo molto più sostenibile di quello che conosciamo, non solo dal punto di vista ecologico, ma anche sociale e psicologico. Il problema è che c’è chi ha interesse a far sì che questa strada non venga percorsa, e quindi non venga raccontata, in particolare le aziende che in un mondo senza combustibili fossili non potrebbero mai avere lo stesso potere e la stessa ricchezza. Il mondo tra 10 anni, quindi? Spero che saremo stati in grado di scegliere la strada più luminosa.