Finisce l’epoca della leadership basata sulle emozioni banali?

L’Amministratore delegato di Amazon, Andy Jassy, fa sapere che per coloro che non torneranno in ufficio almeno tre giorni la settimana ci potranno essere conseguenze pesanti per il posto di lavoro. Il che più o meno è quello che hanno deciso anche Google e Meta. E che aveva deciso, tra l’ironia generale, persino Zoom, l’azienda che più aveva profittato dello smart working.
Intanto, in Francia, Accenture consente ai suoi talenti di poter lavorare quattro giorni la settimana, con un week-end di tre giorni, mentre Orange studia di offrire a chi abbia lavorato per 10 anni “pause per respirare” da 3 a 12 mesi pagato al 70% del salario normale per portare avanti un progetto personale.
Il tono delle notizie appare diverso tra le due sponde dell’Atlantico: più duro in America e più morbido in Francia. Ma la sostanza, a ben guardare, è la stessa. I lavoratori hanno adesso molta più flessibilità nella gestione del loro tempo.
L’esperienza dei lockdown decisi per contrastare il contagio del Covid-19 ha cambiato più o meno definitivamente i luoghi di lavoro. In tutti i casi, non si va più in ufficio sempre, non ci si va senza razionalizzare i tempi e le motivazioni di andarci.
Tutto questo ha diverse motivazioni per le diverse prospettive. È una scelta positiva, per chi si preoccupa del cambiamento climatico, perché riduce gli spostamenti routinari e dunque l’inquinamento e il consumo di energia. È una scelta adeguata per il management delle risorse umane che fronteggia la scarsità di talenti e deve attirarli con proposte interessanti per l’equilibrio tra lavoro e qualità della vita. È un disastro per chi gestisce i collaboratori più con il sistema del controllo che con quello della condivisione dei progetti.
Storicamente sembra un passaggio consequenziale in tutti i casi si supera la condizione di lavoro tipica dell’industrializzazione e si approda alla logica dell’economia della conoscenza. In quest’ultima il valore è generato dalla ricerca, dall’innovazione, dal design, dal gioco di squadra tra specializzazioni diverse, dal senso strategico: tutte caratteristiche che sono in qualche modo incarnate delle persone che lavorano più che capitalizzate dalle imprese. Queste ultime da sempre provano a esplicitare la conoscenza, ma di fatto la qualità del valore che esprimono resta soprattutto frutto della partecipazione delle persone che impiegano.
Quindi le aziende devono soprattutto trattenere i loro lavoratori, perché creano il valore. Hanno esplorato l’ipotesi di pagarli sostanzialmente di più. Il mondo dell’innovazione tecnologica ha pagato cifre sostanziose, sia in salari che in stock options, in America e nel Regno Unito, a un numero limitato di professionisti.
Il mondo della consulenza che assume un grandissimo numero di giovani ha preferito puntare sulla garanzia di formazione. In generale, tutti hanno provato dopo il Covid, appunto, la soluzione della flessibilità dell’orario, simbolo di qualità della vita.
E adesso tutto questo si incrocia con l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa.
Secondo una recente indagine dell’Ocse, per adesso, questa tecnologia è stata introdotta in generale nelle aziende in modo sperimentale, senza sostituzione di lavoratori, con soddisfazione dei professionisti che la trovano d’aiuto senza viverla come una minaccia. Ma, avverte l’Ocse, tutto questo funziona tanto meglio quanto più chiaro e condiviso è il progetto aziendale. E questa peraltro è una condizione essenziale anche per organizzare bene il lavoro da remoto, per due giorni alla settimana, o il lavoro flessibile, con il week-end di tre giorni.
Insomma, si è formato un ceto di lavoratori dell’economia della conoscenza che lavora in modo interessante, che comprende il progetto aziendale, che sostiene la crescita del valore generato dalle imprese. E questo ceto esiste e si sviluppa con le imprese che hanno compreso le dinamiche dell’economia della conoscenza e non hanno nostalgia del mondo del controllo taylorista dei lavoratori tipico dell’epoca industriale.
Forse questo ceto è la nuova classe media? Di certo, per ora non è un ceto abbastanza numeroso da sostituire la classe media che, sempre secondo l’Ocse, ha perso peso nell’insieme delle gerarchie economiche. Forse il numero aumenterà. È strategico che si sviluppi. Anche perché la polarizzazione che caratterizza il resto dell’economia è drammatica. I Paesi che probabilmente si svilupperanno in modo più organico avranno una forma di coesione sociale e in questo una sorta di ceto medio è essenziale. E per molti Paesi questo sarà un bivio storico importante.
Un sistema-Paese non può riuscire a svilupparsi organicamente se le sue imprese sono ossessionate dalla riduzione del costo del lavoro e se il suo sistema pubblico-privato non investe in educazione, ricerca, innovazione almeno quanto i suoi concorrenti.
Un’ipotesi sembra emergere ormai da tempo. Lo sviluppo economico ha bisogno anche di uno sviluppo sociale e culturale organico.
Se questa ipotesi fosse realistica, il che va comunque verificato, occorrerebbe più consenso e meno conflittualità, più esempi di leader colti e meno portatori di slogan banali, più professionisti che si occupano di progetti e meno lavoratori cui sono assegnati dei compiti. Qualunque sia la valutazione su questa ipotesi, un dibattito in materia e una maturazione delle consapevolezze è necessaria.