Diritti

L’accordo nucleare con l’Iran non è più un miraggio

Il nodo cruciale rimane quello delle sanzioni americane, ma si intravede un’intesa all’orizzonte: i funzionari sono al lavoro a Vienna. Tra il Paese e gli Usa la tensione rimane alta
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
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23 febbraio 2022 Aggiornato alle 16:25

L’accordo sul nucleare con l’Iran è più vicino di quanto pensiamo: lo hanno svelato, secondo l’agenzia di stampa britannica Reuters, i diplomatici al tavolo delle trattative riprese a novembre 2021 per salvare l’intesa raggiunta nel 2015. Ma alcune questioni vanno ancora discusse.

Il successo dell’intesa, poi, dipenderà dalla volontà politica delle parti coinvolte, che dovranno fare passi reciproci. E si tratta soprattutto di Usa e Iran. Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian, secondo quanto riporta l’agenzia della Repubblica Islamica Irna, ha dichiarato: «I colloqui di Vienna sono giunti a una fase sensibile, ma l’Iran non sorpasserà mai le sue linee rosse in qualsiasi condizione e continuerà sul suo percorso in modo determinato».

Amirabdollahian si è detto ottimista riguardo all’incontro in corso a Vienna, dove Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Iran stanno rilanciando l’accordo sul nucleare del 2015: «Ci auguriamo che le poche questioni che restano saranno risolte grazie a un’azione realistica dei partecipanti occidentali e che questi garantiscano di tornare a osservare i loro impegni», ha specificato il ministro, che ha ricevuto messaggi positivi da parte degli Stati Uniti per avere un colloquio diretto, ma ancora nessun «passo concreto».

Secondo Reuters, sul tavolo delle trattative riaperte a Vienna il 29 novembre ci sarebbe un testo molto vicino a quella che sarà la versione finale: un funzionario anonimo ha dichiarato che «nell’ultima settimana ci sono stati progressi sostanziali», ed è necessario trovare un’intesa al più presto perché il programma di arricchimento dell’uranio dell’Iran sta procedendo rapidamente, anche se il Paese ha sempre negato di cercare armi nucleari.

L’accordo sul nucleare iraniano – il Joint Comprehensive Plan Of Action, JCPOA – era stato raggiunto da Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito e Germania nel luglio 2015 ed era poi entrato in vigore nel gennaio 2016. Tra i punti cruciali, l’eliminazione delle riserve di uranio a medio arricchimento, il taglio delle riserve di uranio impoverito e delle centrifughe a gas per due terzi (quelle utilizzate per arricchire l’uranio). In cambio, l’Iran aveva ottenuto la cessione dell’embargo economico imposto da Washington, dall’Unione Europea e dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Secondo Reuters l’arricchimento dell’uranio era stato fissato al 3,67% ma, dopo l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo nel 2018 – decisione presa dall’ex presidente americano Donald Trump -, Teheran aveva ricominciato raggiungendo soglie di uranio arricchito sempre più alte, fino al 60%. È una percentuale vicina a quella che consente la produzione di un’arma atomica, ovvero sopra il 93%. A Natale dello scorso anno, il capo dell’Agenzia iraniana per l’energia atomica, Mohammad Eslami, aveva assicurato: «L’Iran non supererà il 60% nel livello di arricchimento del suo uranio, anche se i colloqui in corso a Vienna dovessero concludersi senza un accordo e le sanzioni Usa non venissero rimosse».

Secondo Reuters, l’obiettivo degli incontri di Vienna è quello di tornare all’intesa iniziale, compreso l’arricchimento dell’uranio al 3,67% - con un limite al 5%. La bozza prevede che gli Stati Uniti concedano deroghe di 90-120 giorni alle sanzioni sul settore petrolifero iraniano, piuttosto che revocarle a titolo definitivo: questo non convince Teheran, che chiede qualche garanzia che assicuri loro che gli Usa non si ritireranno più dal Jcpoa.

Inoltre, dovrebbero essere sbloccati 7 miliardi di dollari iraniani che si trovano nelle banche sudcoreane sotto le sanzioni statunitensi, nonché rilasciati i prigionieri occidentali detenuti in Iran. Un punto cruciale per il negoziatore capo degli Stati Uniti, Robert Malley. Su questo è intervenuto il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, in Germania per partecipare alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco: «Lo scambio di prigionieri è una questione umanitaria, non correlata all’accordo. Possiamo farlo subito. Se i colloqui sul nucleare tra Teheran e le potenze mondiali falliranno, le potenze occidentali ne saranno responsabili».

Anche il capo negoziatore della delegazione iraniana, nonché viceministro degli Esteri, Ali Bagheri Kani, aveva ammesso qualche giorno fa come le parti fossero «più vicine che mai a un accordo», ma potessero ancora fallire: «Niente è accordato fino a che tutto non è accordato. I nostri partner devono essere realistici, evitare l’intransigenza mostrata negli ultimi quattro anni», ha scritto Kani su Twitter, riferendosi a Washington. Anche la Guida Suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, ne ha parlato durante una cerimonia a Teheran: «Puntiamo a un uso pacifico dell’energia nucleare», ha detto, con le tecnologie nucleari utilizzate unicamente per usi civili.

Ma, come hanno sottolineato le potenze occidentali, nessun altro Stato ha arricchito l’uranio a un livello così alto senza poi sviluppare armi nucleari e senza mai incorrere in sanzioni. Escluso Israele che, secondo esperti internazionali alcune rivelazioni, avrebbe assemblato tra 100 e 200 testate atomiche.

Sull’intesa è intervenuto anche il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, che ha parlato di «giorni, non settimane». Parlando dei negoziati in corso a Vienna per ripristinare l’accordo smantellato da Trump, ha detto: «Stiamo arrivando all’ora della verità».

Anche Israele si è espressa sull’argomento, in maniera più cauta: il premier Naftali Bennett, parlando della durata decennale dell’accordo del 2015, l’ha paragonata a quella ipotizzata per la nuova intesa, di soli 2 anni e mezzo, definendola, per questo, fragile: «Vuol dire che le limitazioni al programma nucleare iraniano termineranno per la maggior parte nel 2025».

A oltre due mesi dalla riapertura del tavolo di Vienna, non c’è stato alcun colloquio diretto tra Usa e Iran, ma soltanto uno scambio di messaggi tramite la mediazione dell’Ue, attraverso cui gli statunitensi partecipano indirettamente agli accordi. Ma Kamala Harris, vicepresidente Usa, ha incontrato il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz, che ha ringraziato su Twitter la presidenza per «l’impegno per prevenire che l’Iran diventi una nazione dotata di armi nucleari». I colloqui a Vienna continuano. La minaccia nucleare rimane nell’aria.