Diritti

E alla fine spunterà l’arcobaleno ovunque

A giugno, mese del Pride, i loghi e le t-shirt si colorano: questo è rainbow washing. A meno che, una volta passati 30 giorni, aziende e marchi non continuino (davvero) a sostenere la comunità Lgbtq+
Credit: Isi Parente
Ella Marciello
Ella Marciello direttrice comunicazione
Tempo di lettura 6 min lettura
9 giugno 2023 Aggiornato alle 06:30

E alla fine spunterà l’arcobaleno ovunque. Solo che questa non è una favola e la fine non è proprio una fine ma più un inizio: quello del mese di giugno. Non è un racconto perché questo è semplicemente ciò che succede nelle campagne di comunicazione e marketing di molte aziende. Se negli ultimi anni hai notato un aumento dell’armamentario color arcobaleno su ogni sito web o negozio in cui hai fatto il tuo ingresso, saprai che non importa quali saranno gli articoli che vorrai acquistare, di certo c’è una collezione a tema Pride che aspetta di esser messa nel carrello, reale o virtuale.

Capiamoci: supportare le cause, anche da parte delle aziende (il cosiddetto Brand Activism) è stato un passo importante e decisivo che, di fatto, è andato a colmare un vuoto politico. Insomma: se la politica si muove lentamente e le aziende si muovono più velocemente nel centrare determinati obiettivi, cosa può andare storto? Forse, però, prima di mettere nel carrello un prodotto commercializzato da un marchio che sentiamo avere i nostri valori e sentiamo andare nella nostra stessa direzione, c’è una domanda che dovremmo farci: è davvero così?

Le aziende detengono un potere immenso sulle nostre vite, così come il capitale culturale; è importante, perciò, riflettere sul fatto che quando si tratta di questioni sociali il supporto aziendale può essere molto prezioso e, in alcuni casi, cruciale. Ciò che sarebbe opportuno, tuttavia, è imparare a distinguere un supporto autentico e significativo da un tipo di marketing percepito come vicino ai diritti delle persone ma assolutamente dannoso proprio per quelle persone che finge di tutelare.

Se un’azienda si pone come interlocutore attento e compie azioni non così attente, sostanzialmente facendo washing, sta manipolando un’intera comunità a scopo di lucro. Il che non è che sia reato, intendiamoci, però semplicemente non è etico. E come persone che consumano beni e servizi, dovremmo essere in grado di distinguere il bene dal male: capire chi, sotto i lustrini del rainbow-washing, sta finanziando, a esempio, movimenti di estrema destra o dichiaratamente anti Lgbtq+.

Il rainbow-washing è il cugino più colorato del green washing, solo che invece di passare una mano di vernice su finti prodotti o servizi sostenibili, passa un rullo intriso di vernice arcobaleno, guarda caso solo nel periodo “giusto” dell’anno: quello del Pride. È piuttosto facile capire quando un’organizzazione si spende realmente e quando invece, indagando un minimo sul background di un marchio, è evidente la totale mancanza di politiche inclusive o le donazioni a supporto della causa stessa.

Allora, ci verrebbe da dire: perché le aziende lo fanno lo stesso? La dinamica è la medesima che abbiamo già visto in altri contesti, quali l’ambientalismo o il femminismo, con l’avvento a esempio del femvertising, un neologismo che descrive le strategie di comunicazione improntate alla diffusione di modelli femminili forti, propositivi e positivi.

Nel corso degli anni, soprattutto dopo lo sviluppo della quarta ondata femminista portata avanti principalmente mediante i social, i casi di femvertising si sono moltiplicati (2 esempi su tutti: la campagna #LikeAGirl di Always e Real Beauty di Dove). Sempre più aziende, quindi, hanno cercato di adottare una comunicazione di questo tipo, spessissimo senza un reale interesse a politiche di inclusione e azioni concrete. In questo caso, appunto, parliamo di pinkwashing o commodity feminism, un femminismo di facciata, non reale, volto solo a guadagnarsi via via fette di mercato più grandi.

Allineandosi quindi alla comunità Lgbtq+, le aziende sono in grado di assecondare un corpo sempre più crescente di consumatori e consumatrici, attenti e consapevoli dal punto di vista sociale. In pratica, però, stanno cooptando il movimento di liberazione queer in cambio di un guadagno monetario, senza in realtà investire nella stessa comunità che stanno sfruttando per fare un upgrade della loro reputazione pubblica (e dei loro conti in banca).

Ci vuole più di un logo arcobaleno o di una t-shirt a tema per comprendere davvero le istanze di una comunità marginalizzata. Quando un’azienda compie gesti superficiali ma non contribuisce in modo significativo, da un punto di vista puramente di branding può potenzialmente vivere a lungo di rendita, perché è tutta facciata e prima che la facciata crolli può passare del tempo. Ma, come si diceva prima, le persone (e nello specifico le persone con un potere d’acquisto) hanno imparato a riconoscere il bene dal male. E hanno imparato a farsi domande.

Si chiedono, per esempio, se la cultura aziendale di questa o quell’azienda improvvisamente vicina a una tematica sociale rimanga inclusiva oltre il mese di giugno, o l’8 marzo, o qualunque ricorrenza infiammi i reparti marketing di tutto il mondo. E, se la risposta è negativa, sanno dirigere il potere d’acquisto altrove. D’altronde, è l’era di internet baby, l’era in cui se succede qualcosa la rete lo sa.

E lo sa perché nell’era di internet chi fa del bene non tace, nonostante i proverbi che sono nati quando la rete non c’era. Perciò, stiamo pur certi che qualunque marchio che faccia un’azione sentita e autentica userà il grande potere dell’amplificazione. Quello che da consumatorə possiamo fare è controllare i siti web, i social media e i comunicati stampa: se esistono azioni concrete le troveremo lì. Una piccola postilla a questo: il brand activism millantato è più facile da trovare nelle grandi corporazioni che nel piccolo negozio sotto casa che probabilmente vuole mostrare un sincero sostegno al Pride.

Chiaramente, non tutti i marchi che hanno pronta una collezione arcobaleno stanno facendo rainbow washing ma c’è sempre spazio per migliorare. In soldoni, letteralmente: se dirigi un reparto marketing e stai per lanciare una serie di prodotti a supporto della comunità Lgbtq+, assicurati di donare una parte significativa dei proventi a un’associazione o ente del terzo settore che si spende tutto l’anno per i diritti. E ricordiamocelo: una cultura aziendale inclusiva inizia dall’interno e, per estensione, sempre dall’interno si genera un’immagine di marca inclusiva.

Le politiche di D&I nella tua azienda possono essere migliorate? O ancora: esistono solo sulla carta ma non sono applicate? Nell’organigramma da chi sono occupati i posti ai vertici? Il tuo luogo di lavoro è sicuro per le persone transgender?

Giugno ha 30 giorni ma i diritti delle persone non hanno data di scadenza.

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