Ambiente

Per salvare l’ambiente prova a essere felice

Un tempo fonte di gioia, oggi è crisi climatica da temere. Ma come uscire da questa impasse? Un modo esiste e sta nel far emergere come le pratiche di vera felicità non sono legate ai consumi, ma alle relazioni
Credit: Paul Pastourmatzis

Ha più di cinquant’anni la Giornata mondiale dell’Ambiente istituita dalle Nazioni Unite per il 5 giugno di ogni anno. Ed è impressionante pensare a come sia cambiata, in maniera repentina e radicale, la nostra concezione dell’ambiente in questo mezzo secolo.

Anni Settanta: natura democratica e anticiclone delle Azzorre

Per chi, come me, è nato più o meno in quegli anni, nella metà dei Settanta, l’ambiente era soprattutto due cose: qualcosa che si studiava a scuola, in maniera un po’ meccanica, il ciclo delle stagioni, un po’ di botanica, nozioni base di biologia e fisica. E dall’altra parte, semplicemente, un luogo di divertimento. Per noi oggi adulti l’ambiente è sempre stato associato alle passioni. Che fosse il mare estivo dove il mite anticiclone delle Azzorre ci consentiva di stare sulla spiaggia tutto il giorno per settimane. Che fosse, e parlo di nuovo per me, dei campi scout estivi. Tende piantate nel terreno, fuochi e giochi notturni, camminate nei boschi, senza cellulari e a volte persino senza capi, solo una mappa e una bussola.

Ma nessuno di noi percepiva l’ambiente come un pericolo, semmai – appunto - come un piacere assoluto. Così intenso era il rapporto con la natura, unito ovviamente alla condivisione e alla relazione, che, ricordo, quando rientravo a dormire tra le quattro mura di casa dopo due settimane nei boschi provavo un senso di claustrofobica disperazione. Mi sembrava impossibile che l’uomo e la donna non dovessero vivere sembra all’aperto, una condizione naturale di felicità.

Era anche, l’ambiente degli anni Settanta, molto democratico. Accessibile a tutti, dalla spiaggia ai campi scout alla montagna, consentiva a famiglie di ogni ceto sociale il rapporto con la forma più semplice di benessere.

Se la natura è diventata fonte di ansia e paura

Ma se guardiamo al nostro rapporto con l’ambiente oggi scopriamo un drastico cambiamento. E non in meglio.

L’ambiente, da fonte di piacere, è diventato causa di possibile rischio se non pericolo di morte. E questo perché, lo arci-sappiamo, l’ambiente lo abbiamo sfruttato fino all’estremo e il risultato è stato che oggi non parliamo più di ambiente ma di crisi climatica. Da un termine neutro, descrittivo, siamo passati a un termine che indica un conflitto, una crisi, un problema, il più grande dei problemi.

È un cambiamento semantico che indica una perdita, quella, appunto, di un rapporto con la natura “naturale”. Oggi chi ha figli o non li manda agli scout o ai campi nella natura oppure se lo fa ha paura, teme gli eventi estremi, controlla il meteo compulsivamente. La pioggia può diventare alluvione, il sole ondata di calore. Le condizioni climatiche possono cambiare repentinamente e il timore è che lo facciano sempre in peggio. Ambiente è diventato sinonimo da un lato di una possibile fonte di distruzione, dall’altro di qualcosa che dobbiamo curare, salvare, pena, sempre, la nostra fine.

“Salvare il pianeta” è un imperativo che non serve

Che fare di fronte a questo stravolgimento verbale e reale? E come raccontarlo ai nostri figli, che ancora hanno tutta una vita, nell’ambiente, da vivere?

Una prima cosa, senz’altro, è questa. Proprio come faremmo con una persona malata, anche con un ambiente compromesso possiamo continuare a rapportarci per trovare piacere e felicità.

Si parla moltissimo di terapia attraverso la natura, di immersioni nel verde per curare ansia ed ecoansia. E spesso lo si fa in maniera retorica, però non c’è dubbio, è vero.

Basta persino la vista di una pianta o di un albero a farci stare meglio, non parliamo di una vacanza al mare o in montagna. Ma non abbiamo risolto il nostro problema fondamentale, ovvero come curare la natura malata. Anche qui, sappiamo perfettamente cosa dovremmo fare a livello sistemico, la transizione energetica, il passaggio alle energie rinnovabili che oggi coprono ancora una quota minore della nostra energia.

Dovremmo rivoluzionare i trasporti, il nostro modo di mangiare e fare turismo. Tutto questo, però, è molto complicato, perché il sistema che oggi consente alle persone di sopravvivere e lavorare è un sistema antitetico alla cura della natura. Né, purtroppo, il discorso moralistico sul “salvare il pianeta”, cambiare le proprie pratiche in un mondo che non cambia, funziona.

Prova a dire a un adolescente che deve vestirsi semplicemente quando tutti intorno a lui si vestono firmati e la società gli ricorda che la sua felicità sta in un paio di scarpe da 400 euro. La verità è che non c’è peggiore infelicità che vivere in una società dei consumi non potendo consumare.

L’unica strada: disaccoppiare consumi e felicità

E allora che fare? Una strada c’è, è poco battuta, eppure contiene una chiave formidabile che consentirebbe di contrastare la crisi climatica restituendoci il piacere di un rapporto sereno con l’ambiente intorno a noi.

Si tratta di capire e far capire, di scoprire e raccontare, esperienze e pratiche di felicità. Che siano di persone che hanno lasciato un lavoro in banca per tornare a coltivare, o persone che vivono in ecovillaggi.

Che si tratti di chi ha scelto una vita eremitica o religiosa o anche di bambini che sperimentano forme di micro-comunità. In tutti questi casi è facile vedere che appagamento e serenità, in definitiva felicità, non hanno mai a che fare con consumi. E non per una imposizione moralistica ma in maniera…naturale.

Restare in una grotta 500 giorni in perfetta letizia, come ha fatto Beatriz Flamini, è stato possibile perché ciò che la rendeva felice era lì con lei: leggere, disegnare, tessere. Ma possiamo pensare anche a momenti di crisi e di dolore, di malattia: tutto ciò che ci ha portato sollievo è fatto da relazioni, da persone, parenti, amici, compagni e compagne con i quali abbiamo potuto condividere.

Per contrastare realmente la crisi, allora, è necessario contrastare progressivamente ma inesorabilmente la convinzione che la felicità passi per oggetti, tornando a quello che, fino all’epoca preindustriale, era ovvio. Ovvero che la felicità passa per un rapporto con uno o più soggetti (trascendenti, e poi semplicemente umani, comunque soggetti).

Come abbiamo potuto perdere questa ovvietà? Come abbiamo capovolto ciò che era naturale? Tornare a sentire che il vero appagamento è legato alla relazione sarà quello che ci consentirà di risolvere il drammatico labirinto in cui ci troviamo. Vogliamo salvare l’ambiente? Proviamo, davvero, a essere felici.

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