Ambiente

L’emergenza non è finita

Come si stabilisce la fine di un’emergenza? Ma soprattutto, chi la decide? Si misura sulla fine dell’evento che la origina o si integrano anche le conseguenze e le esperienze di chi l’emergenza la abita?
Credit: Saverio Nichetti
Credit: Saverio Nichetti
Tempo di lettura 8 min lettura
2 giugno 2023 Aggiornato alle 06:30

A. ci accoglie in casa sua, in Emilia-Romagna, ormai abituata al passaggio di volontari e volontarie. Prima di entrare sbattiamo tutti gli stivali sullo zerbino per togliere il fango secco. Ci guida in cucina. Della casa rimane l’ossatura, spolpata dall’acqua. Un tavolo e qualche sedia, niente sportelli, sul piano cottura riposano scatole con cibo e scorte.

Ci dice di fare piano per non svegliare il marito che sta riposando nella stanza accanto. Dove c’erano le porte ora ci sono solo cornici scrostate che rivelano l’intonaco bianco.

«Da domani non daranno più i pasti - dice e nel farlo indica il fornello. - Dicono che dobbiamo riprendere a cucinare». La cucina di A però, non funziona, gli elettrodomestici nuovi devono ancora essere consegnati e il forno è solo un guscio vuoto.

Il punto di distribuzione dei pasti è appena a un paio di vie di distanza. Le strade, ora sgombre e ricoperte di polvere, portano la traccia del passaggio dell’acqua.

Loretta Poggi, coordinatrice di quartiere, ci spiega come è nato lo spazio di supporto e distribuzione. Il Comune, sostanzialmente, le ha chiesto di mettersi in strada e diventare un punto di riferimento. «Sono scesa con l’ombrello» dice, per poi farci vedere i tavoli e il gazebo che nei giorni hanno strutturato lo spazio.

Con il supporto della Cgil e dei volontari ha lavorato costantemente dall’inizio dell’emergenza. «Però, a parte un ragazzo del Comune, non ci hanno dato nulla, né strumenti né indicazioni. Io ho fatto fatture tutta la vita, non ne so niente di queste cose».

Aveva paura, ci spiega, e non solo dell’acqua. Paura di dare indicazioni sbagliate, che qualche volontario si facesse male.

Il sindaco che aveva annunciato la “fine del mondo” con un post su Instagram, non ha strutturato i lavori. L’amministrazione si è riunita ben dieci giorni dopo l’inondazione, con un ritardo che tradisce l’assoluta impreparazione da parte del Comune, della Regione e dello Stato stesso. Nonostante gli eventi climatici violenti e improvvisi siano in aumento, non ci sono piani attivi a livello regionale per offrire una pronta risposta che metta in sicurezza le persone.

Lo spazio Forlì città aperta, che in ordinaria amministrazione si occupa di persone migranti, ha riorientato immediatamente le risorse per coordinare i volontari, fornire i materiali e raccogliere le segnalazioni.

Con l’aiuto dei collettivi, tra cui il collettivo Rea, ha prestato soccorso ininterrottamente, ma oggi si ritrova senza volontari perché l’amministrazione ha dichiarato che non sono più necessari.

L’emergenza è rientrata e la Romagna deve ripartire. Le cantine sono ancora piene di fango o acqua, ci sono montagne di sedimenti accomunate nei quartieri meno centrali, ma non si riconosce più lo stato di emergenza. Anzi, mentre i pompieri continuano a drenare acqua per rendere possibile rimuovere le tonnellate di fango che hanno ricoperto le strade e i campi, ai civili si chiede di tornare alla normalità, senza cucine, senza elettrodomestici, senza vestiti, lavoro o case. Soprattutto, si chiede di dimenticare gli invisibili, le persone disabili, i ragazzi e gli anziani che improvvisamente hanno perso lo spazio di percorrenza della loro esistenza.

La figlia di A. mi racconta di essere stata salvata dalla finestra e che i soccorritori hanno realizzato subito che era in stato di shock «non sentivo nemmeno il freddo». Ora, a poche settimane di distanza, la scuola ha già ripreso con le verifiche e le interrogazioni. Le perdite e le scosse sociali e personali sembrano non essere contemplate.

A. ci spiega che ha perso il cassettone in cui teneva i ricordi della crescita della figlia e che un’amica l’ha aiutata a recuperare qualche album di foto mettendoli ad asciugare su uno stendibiancheria. Un atto di cura per la vita che rischiava di essere sommersa.

Alcune cantine continuano a riempirsi d’acqua, un problema che i residenti devono gestire in autonomia. I mezzi pesanti per lo spurgo lavorano solo sulle strade, alle singole abitazioni devono pensare gli inquilini.

A. ha speso 500 euro, ma ancora non sa se saranno rimborsati. Chi può paga lo spurgo, mentre tutti gli altri si affidano al lavoro dei volontari che, però, ora sono passati dalle 70 persone al giorno ad appena 5.

Lo spurgo e gli elettrodomestici sono solo le prime voci di una spesa sostenuta che i cittadini di Forlì si apprestano ad affrontare per rendere le loro case nuovamente abitabili. Il problema però è che dovranno farlo pagando direttamente i lavori. Le assicurazioni in essere, nella maggior parte dei casi non coprono questi eventi. L’agente assicurativo di A. le ha detto che solo il 2% dei suoi assicurati aveva la giusta dicitura nella polizza e che perciò, solo un minimo percentile dei suoi clienti riceverà i rimborsi per i danni.

Chi potrà ricostruire la propria vita lo farà, tutti gli altri valuteranno i sacrifici economici e si organizzeranno di conseguenza. Questo è un esempio pratico di come la crisi climatica si intreccia alle disuguaglianze e le acuisce nell’arco di appena due settimane. Un varco che al protrarsi dell’emergenza reale, negata dal ritiro dello stato di emergenza formale, rischia di ingrossarsi proprio perché non riconosciuto.

Tornare alla normalità può sembrare un buon meccanismo per superare una crisi, ma è tutta apparenza. Soprattutto perché nel ripristinare l’ordinario stato delle cose, senza che questo esista più, si perde anche tutta la percezione del supporto comunitario dal basso, una risorsa inestimabile che Forlì ha ampiamente dimostrato di avere.

La rete locale volontaria è stata così forte da riuscire persino a sopperire, o quantomeno a tamponare, alle mancanze di amministrazioni e potere centrale. E non solo in termini pratici, ma anche di consapevolezze relative alla reale entità del problema.

In una dichiarazione congiunta, Anpi provinciale e sezione di Forlì, Arci Forlì, Adl Cobas Romagna, Campagna Diritti Sommersi, Cgil, Feder Consumatori Forlì-Cesena Aps, Fiab Forlì, Forlì Città Aperta, Fridays for Future Forlì, La Materia dei sogni, Libera Forlì-Cesena, Libera presidio Placido Rizzotto, Parents for Future, Rete studenti medi e universitari, Rea Collettivo di genere, Udu Forlì e Un Secco No Aps hanno specificato che : “L’acuirsi della crisi climatica, ancora oggi negata da alcuni esponenti politici, richiede un cambio di rotta radicale in termini di pianificazione del territorio, approccio alla natura e preparazione a fronteggiare eventi climatici estremi”.

Le associazioni e i gruppi attivi sul territorio hanno compreso quello che ancora sfugge alla politica centralizzata: servono strutture di reazione e prevenzione. Sbloccare e stanziare fondi sarebbe una procedura più semplice se fossero già previsti dei dispositivi pensati proprio per la crisi climatica. Come pure è vero che si potrebbero ridurre le vittime e i rischi operando periodiche rivalutazioni del territorio e svolgendo perizie che identifichino i punti più fragili per poi avviare procedure di ricollocamento delle persone maggiormente esposte. Cosa che sarebbe possibile se l’Italia integrasse un vero e proprio diritto alla casa, intesa nella sua piena dignità e funzionalità.

Gli stessi corpi professionali demandati alla gestione delle crisi dovrebbero essere forniti di una maggiore autonomia di reazione, in modo da poter fronteggiare in tempo le fasi più critiche e immediate, come l’evacuazione.

Loretta Poggi ci racconta che no, non sono stati avvisati per tempo, che inizialmente sembrava che tutto si sarebbe risolto nell’arco di poco e che l’avviso finale di emergenza è stato pubblicato su Facebook, quindi senza un dispiegamento delle forze dell’ordine per raggiungere tutti i cittadini. Questa scelta ha in parte coperto l’amministrazione, che può fornire prova tangibile di aver dato l’allarme autoassolvendosi, mentre dall’altro ha isolato tutta la popolazione che non usa abitualmente internet o i social. Categorie di persone fragili, come gli anziani che hanno perso tutto, dalla casa alle fotografie, segni tangibili di ricordi e vissuti.

Insomma, si percepisce la consapevolezza che qualcosa manca e che non sarà lo stanzialmente di fondi a riempire il vuoto. Non c’è coscienza climatica. L’emergenza nella sua complessa e stratificata essenza non è compresa né ascoltata e chi viene colpito si ritrova improvvisamente consapevole dell’immenso silenzio istituzionale riempito a tratti da passerelle controllate o da eventi di vicinanza formale che non si risolvono poi in una vicinanza sostanziale.

Le opzioni sono molteplici, ma la verità è che, politicamente, la mossa vincente è fingere che non ci sia una reale emergenza. È più utile raccontare che in due settimane si è risolto tutto, perché è rassicurante e non richiede tanti sforzi. È più facile dire ai cittadini che andrà tutto bene invece che riconoscere che l’emergenza sarà lunga, sofferta e, probabilmente, non rimarrà isolata. Affrontare la crisi climatica e gli eventi a essa correlati richiede una forte volontà politica, capace di accettare lo stato delle cose e implementare manovre adeguate.

Per evitare che siano i singoli individui, spesso studentesse e studenti, a doversi sobbarcare il lavoro di cura necessario a ripristinare la vivibilità nelle zone colpite.

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