Ambiente

Latte: quale sarà il suo futuro?

La produzione di latte ha un alto impatto ecologico ma fare qualcosa è possibile. L’azienda Brimi, insieme a Loacker, sta promuovendo in Trentino Alto Adige una filiera di approvvigionamento sostenibile
Credit: Polina Tankilevitch
Tempo di lettura 5 min lettura
3 giugno 2023 Aggiornato alle 11:00

Un macchinario raccoglie il fieno essiccato naturalmente da una grande vasca e lo posiziona davanti agli stalli. Qualche vacca, soprattutto frisone – cioè quelle a chiazze nere e bianche che producono latte – si avvicina per mangiare. Altre invece rimangono accoccolate sulla paglia, vanno verso l’apparecchio per la mungitura o si incamminano pigre sul terrazzo.

Siamo a Soprabolzano, una frazione di Renon, in Trentino Alto Adige. È una giornata piovosa, il massiccio dello Sciliar delle Dolomiti è coperto dalle nuvole e nella prateria adiacente all’allevamento ci sono solo degli esemplari troppo piccoli per essere portati nelle malghe di alta montagna. In tutto sono quaranta. Quando c’è il sole e «non rischiano di scivolare», tutti pascolano fuori.

Erich Hohenegger fa l’allevatore da sempre, ma in modo diverso da suo padre e suo nonno. Sul tetto del suo maso, il Lichtensternhof, sta installando dei pannelli solari e controlla l’alimentazione e la salute delle sue vacche tramite un sistema di microchip. «Produrre il latte biologico (circa 30-35 litri per capo al giorno) con il fieno, senza Ogm, è costoso e difficile – racconta, accarezzando uno degli animali sul muso. - Bisogna dosare bene il mangime e il fieno» e garantire degli standard sul benessere degli animali. L’investimento però sembra pagare: «Chiamiamo molto meno il veterinario e facciamo un prodotto di alta qualità».

Da alcuni anni Erich collabora con il consorzio di Brimi, uno dei più grandi del Trentino Alto Adige. Il latte e il siero, venduto da lui e dagli altri allevatori alpini, si trasformano, all’interno dell’impianto Dolomites Milk di Vandoies/Vintl, in creme per i wafer e basi di altri dolciumi, grazie a un accordo con il noto marchio Loacker.

Come per le filiere di cacao, vaniglia e nocciola, il tentativo, dal 2019, è quello di recuperare la tradizione locali, per garantire all’azienda un approvvigionamento sostenibile. Per questo, le stalle dei collaboratori hanno in media 15 capi e 8 vitelli e aderiscono al Progetto Protezione Animali dell’Alto Adige (Tierschutzprojekts Südtirol), in collaborazione con il gruppo di lavoro indipendente per le scienze zootecniche presso la Facoltà di Scienze e Tecnologie dell’Università di Bolzano e dall’associazione lattiero-casearia dell’Alto Adige Temi.

Non è facile sfuggire alle polemiche. Il settore lattiero – caseario italiano, pur appartenendo al patrimonio storico dell’Italia, presenta diverse criticità legate al trattamento degli animali e alla sua impronta ecologica. Nelle grandi aziende zootecniche, con centinaia di capi, è difficile monitorare le forniture idriche, l’uso delle aree di riposo, la condizione fisica, le distanze, i danni alla pelle, la sporcizia, lo stato degli zoccoli, le zoppie, il comportamento in piedi e i pericoli, dovuti ai tassi di natalità delle vacche.

Allo stesso tempo i grandi allevamenti intensivi sono molto inquinanti. Secondo una stima dell’European Data Journalism network, rete di giornalismo datadriven, il 27,78% delle emissioni legate al cibo derivano da latte e formaggi. Una fetta più piccola del 57,23% rappresentato da carne e uova, ma comunque molto superiore al 2.85% di frutta e verdura.

Solo dalla catena del valore del formaggio dipendono 21,2 Kg di CO2. Uno studio, condotto nel 2018 dall’Università di Oxford, ha dimostrato che un bicchiere di latte vaccino o caprino produce una quantità di CO2 tripla rispetto agli equivalenti vegetali, pari a 1,14 Kg in Australia o 2,50 in Africa. Per fare un confronto, il latte di mandorla ha in media un potenziale di 0,42 e quello di soia di 0,75. Quelle

Una quota consistente delle emissioni è dovuta alla conversione del suolo in terreno destinato al pascolo. Anche le flatulenze e i gas di eruttazione dei ruminanti sono poi responsabili della produzione del metano, uno dei gas più impattanti sul riscaldamento globale. Inoltre, secondo il Wwf, dal settore del cibo dipende l’89% dell’impronta idrica totale giornaliera degli italiani. Questo dato comprende sia il consumo di acqua per coltivare il foraggio per gli animali, sia le lavorazioni di carne, uova e latte.

In quale modo quindi è possibile abbattere l’impatto ecologico del latte? In alcuni laboratori, si sta sperimentando la coltivazione sintetica di questo prodotto. In maniera analoga al procedimento della carne, si tratta di un processo di fermentazione, nel quale dei microrganismi vengono convertiti in produttori delle proteine del latte. Questo metodo sta diventando sempre più popolare, ma rimane chi come, Brimi e Loacker, preferisce affidarsi alla tradizione.

Infatti anche la gestione di pochi capi e “un’adozione più ampia delle migliori pratiche e tecnologie esistenti in materia di alimentazione, salute, allevamento e gestione del letame, nonché un maggiore uso di tecnologie migliorate, - afferma un report del 2013 della Fao sul percorso verso gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu - può aiutare il settore zootecnico mondiale a ridurre le proprie emissioni di gas serra addirittura del 30%.”

Leggi anche
Tutela animale
di Matteo Cupi 3 min lettura
Sfruttamento animale
di Alice Trombetta 2 min lettura