Diritti

Il diritto di prendersi spazio

Corpo, denaro, linguaggio: quante volte le donne si sono dovute rimpicciolire intorno a queste tematiche, chiedendo magari scusa? Il WeWorld Festival ci ha dato l’occasione per riflettere e confrontarci
Credit: Weworld
Ella Marciello
Ella Marciello direttrice comunicazione
Tempo di lettura 8 min lettura
29 maggio 2023 Aggiornato alle 13:30

Si è appena conclusa una 3 giorni intensa per il WeWorld Festival, ospitato anche quest’anno a Base Milano e organizzato dalla Ong stessa, che da 50 anni si impegna a garantire i diritti di donne e bambini. Un programma ricchissimo di eventi, talk, performance, mostre e film per parlare della condizione delle donne in Italia e nel mondo. Il tema centrale di questa edizione è stato: “Conquistiamoci spazio”.

Il concetto di spazio mi ha sempre regalato riflessioni, perché come lo abitiamo ha quasi sempre a che fare con il genere in cui ci identifichiamo. Abitiamo lo spazio attraverso il corpo e le idee, il lavoro che facciamo, il denaro che abbiamo. Possiamo prenderci più o meno spazio, ci diciamo, quando diventiamo madri e tentiamo di portarci a casa le giornate, provando a dividere il carico di incombenze con i padri. Lo spazio per sé, lo spazio della vita pubblica, la libertà di occupare spazio che per secoli e secoli si è tradotta in un confino: allargarsi senza mai straripare.

Ci pensavo mentre tornavo a casa, prima in metropolitana e poi in treno, e guardavo l’intorno di persone occuparlo, lo spazio. Sempre in modi differenti. È la modestia, la pudicizia, a dirci che un sedile di un mezzo pubblico va occupato con le gambe incrociate, le spalle strette, o un’insidiosa convinzione che dovremmo rimpicciolirci, contorcerci in pacchetti ordinati e maneggevoli, scusandoci per lo spazio che stiamo riempiendo o sottraendo a qualcuno?

Mi è stato particolarmente difficile non pensare a tutto lo spazio che per le donne ancora manca: nelle sale riunioni, nelle stanze dei bottoni. Manca spazio per l’autodeterminazione dei corpi, nelle narrazioni, che tu sia madre, lesbica, donna trans, in carriera, in cerca di lavoro, che non vuole figli, che tu sia donna, insomma: in un mondo che è stato progettato per chi donna non è.

Prendersi spazio, vuol dire, innanzitutto, prendersi quello della consapevolezza. Perché dopo la consapevolezza arriva il dialogo, la condivisione. Ma può succedere anche l’opzione inversa: parlare, sentir raccontare e fare propri nuovi punti di vista. È il motivo per cui ha ancora (e se posso, ancora di più in questo momento storico) senso e urgenza l’opera di divulgazione e sensibilizzazione.

Lo spazio è una questione femminista. Il corpo è una questione femminista. Il denaro è una questione femminista. L’erosione di diritti conquistati è una questione femminista. Farsi domande su come opporsi a questo è una questione femminista. Le parole che usiamo per costruire la realtà e, possibilmente, per non nuocere ad altri e altre, sono una questione femminista.

E, a valle, di queste considerazioni, il movimento di corpi e idee che ancora si agita intorno a certe tematiche è inarrestabile e non può passare inosservato.

Se ancora il corpo delle donne è oggettivizzato, quanta responsabilità ha il mercato? Di corpi, spazi, implicazioni capitalistiche e percezioni distorte dai social media, hanno discusso, tra le altre, Sara Ventura, ex tennista professionista, le attiviste Francesca Bubba, Nogaye Ndiaye, Lara lago e Cathy la Torre. Il corpo che cresce, quello degli adolescenti è stato invece discusso toccando temi importanti come l’autocoscienza, l’identità di genere e l’identità digitale.

Lo spazio del corpo e dei vissuti, legato alle parole per raccontarlo, è stato oggetto di 2 dibattiti. Il primo, con il filosofo Lorenzo Gasparrini, la vice presidente di Fondazione Diversity Gabriella Crafa e la content creator Momoka Banana, si è interrogato riguardo il potere che ha il linguaggio nel costruire la realtà e di come, spesso inconsapevolmente, utilizziamo espressioni con un portato insultante. Decostruire le narrazioni legate al genere, all’orientamento sessuale, alla provenienza è fondamentale non solo per non nuocere a chi occupa spazio insieme a noi ma anche per riscrivere insieme un futuro che non discrimini.

Il secondo, intitolato Il diritto di scrivere del proprio corpo - Da Annie Ernaux ai social ha visto passarsi il microfono Flavia Brevi, fondatrice di Hella Network, Federica di Martino, attivista di IVGstobenissimo, Linda di Freegida e Lorenzo Flabbi, editore e traduttore di Annie Ernaux. Attraverso una lettura critica di alcune pagine della scrittrice francese si è ripercorso il grande assunto del “personale è politico”, indagando alcuni temi centrali come l’aborto, le mestruazioni, la masturbazione, le relazioni affettive, rivendicando il diritto di scrivere di sé, di guardare per sé.

Gli occhi che guardano, però, non sono soltanto quelli degli adulti ed è per questo gli spazi da conquistare partono dalla cultura perché dove c’è cultura della violenza si genera violenza. Per questo occorre partire dai più piccoli, i bambini e le bambine, per parlare di consenso: ne hanno discusso Roberta Fiore formatrice nelle scuole e coordinatrice Spazio Donna WeWorld Scampia; Alessia Dulbecco, pedagogista e autrice nell’ambito della pedagogia di genere; Alessio Miceli di Maschile Plurale, associazione impegnata nella ridefinizione dell’ identità maschile, plurale e critica verso il modello patriarcale.

Riguardo i nuovi spazi da conquistare, merita un approfondimento speciale la giustizia sessuale e riproduttiva: quanto le donne, in questo ambito, sono ancora penalizzate dal solo essere donne? Se ne è parlato in WeCare. Senza giustizia sessuale e riproduttiva non ci può essere parità di genere con l’attivista e scrittrice Giorgia Soleri, la doula Francesca Palazzetti, Martina Albini di WeWorld e l’esperta di gender Alice Macharia. Il concetto di giustizia sessuale e riproduttiva supera quello più ristretto di salute sessuale e riproduttiva per aprirsi a tutta una serie di altri diritti e libertà fondamentali.

2 dati mi hanno scosso particolarmente: ogni 2 minuti una donna muore nel mondo per cause risolvibili legate a parto e gravidanza e il 45% degli aborti praticati nel mondo non sono sicuri. Garantire questa giustizia non significa solo garantire i basilari diritti sessuali e riproduttivi, ma anche il diritto alla vita, alla privacy, all’educazione, all’informazione, alla libertà da ogni forma di violenza. Si tratta, in sostanza, di un veicolo fondamentale per la promozione dei diritti umani e della parità di genere.

Quando parliamo di parità è impossibile non pensare al concetto di gender pay gap e di come il potere legato al denaro ancora discrimini in tutto il mondo il genere femminile. Eppure, lo spazio (e la felicità) si conquistano soprattutto attraverso l’emancipazione economica e un discorso pubblico che ponga al centro la tematica. Quante donne sanno negoziare in fase di colloquio lavorativo? Quanto pensano che valga il loro apporto in termini economici? Parlare di soldi si può e si deve anche se per lungo tempo ci è stato detto il contrario, come mi hanno insegnato Azzurra Rinaldi, economista, e Annalisa Monfreda, giornalista e fondatrice della piattaforma Rame.

Chiudo questa breve rassegna degli eventi che mi sono rimasti più impressi con Sex and the City: ricerca situata che effettua scelte, elabora esperienze e interagisce attivamente con la vita pubblica. Al suo centro la costruzione di un Atlante di genere di Milano: una mappatura critica nella quale i capisaldi del discorso di genere (che riguardano il rapporto fra la produzione e la riproduzione, le politiche sul corpo delle donne, la violenza di genere, il diritto alla città) diventano spazi fisici che traducono esigenze specifiche, e reti di soggetti che animano e danno senso all’esistenza di quegli spazi. Ne hanno discusso insieme Elena Lattuada (delegata del Sindaco di Milano alle Pari Opportunità) e Michela Cicculli, Presidente della commissione Pari opportunità di Roma Capitale, moderate da Annarita Briganti (giornalista de La Repubblica).

L’Atlante è costruito attraverso la sovrapposizione di più livelli di lettura critica della città. La mappatura ambisce a restituire le declinazioni che la città propone rispetto alla vita delle donne. Indagandone gli usi, intercetta i servizi che a vario titolo rispondono a esigenze legate alla loro vita quotidiana: i luoghi per l’allattamento sicuro, i servizi igienici pubblici, gli ascensori in metropolitana, le aree gioco, gli asili nido, le piazze aperte.

La vita quotidiana delle donne è, infatti, condizionata dalla necessità di fare fronte alla maggior parte del lavoro di cura non retribuito. Trattare la mobilità e altri aspetti della vita urbana come “questioni di genere”, tuttavia, non significa avallare lo stato delle cose: è “solo” lo stato delle cose. Viceversa, la città delle donne (se esistesse) sarebbe la città di tutte e di tutti, aspirerebbe a una rottura dei ruoli precostituiti e a una equa distribuzione fra i generi dei carichi legati alle responsabilità riproduttive. La città delle donne, alla quale questa indagine guarda, mette al centro la cura, a prescindere dal genere che se ne occupi.

Leggi anche