Ambiente

Emilia-Romagna, bisogna ricostruire. Ma cosa?

La devastazione dell’alluvione, con l’allagamento e la distruzione di intere zone, ci mette di fronte a una domanda fondamentale: che cosa e come ricostruire? Che modello alternativo di presente e di futuro abbiamo?
Credit: ANSA/MAX CAVALLARI

A scorrere le dichiarazioni di politici di Governo e opposizione, governatori di regione e amministratori locali, dopo il disastro emiliano, si nota il ricorrere di un concetto unico: ricostruiremo come prima, la regione tornerà come prima, il turismo riaprirà in tempo. I fondi stanziati nell’emergenza, si chiamano infatti “fondi per la ricostruzione”. Prima ancora di aver elaborato il lutto di una devastazione enorme, costata un miliardo di danni e quattordici vite - mentre ancora le piogge non sono finite - sugli schermi mediatici scorre un’unica ossessione. Che tutto torni uguale. Un modo per rimuovere, anche, la paura. Agire senza pensare, fare, fare, fare senza fermarsi neanche un attimo a pensare. A pensare cosa e come ricostruire.

Villette o alberi?

Già, perché il fatto di essere di fronte a una sorta di “grado zero”, un momento di presa di coscienza collettiva della crisi - l’intera Italia è scioccata, e per fortuna tutti stanno capendo i motivi dell’accaduto, nonostante al Governo ci siano anche negazionisti come, soprattutto, tra i giornali di destra - dovrebbe indurci a riflettere sul fatto che se costruiamo tutto “come prima” non abbiamo risolto nulla. Che l’ulteriore catastrofe è solo rimandata. Ma cosa significa costruire diversamente? Due cose. Anzitutto, ovviamente, capire cosa sul territorio non ha funzionato.

Perché i fiumi esondati hanno causato tanti danni, quali le zone dove si è costruito, o si stava costruendo, e che sono state allagate. Esperti, climatologi, ingegneri, agronomi, esperti di foreste formati sulla crisi climatica dovrebbero mettersi di fronte a un tavolo e indicare che cosa andrebbe ricostruito e cosa non, dove si dovrebbe intervenire riforestando, dove no. Come far sì che i fiumi non causino tanti danni, a esempio evitando nuove abitazioni vicino agli argini, come quelle che si stavano costruendo, villette di lusso, nella zona della Ghilana, contro il parere degli ambientalisti che lottano da anni. Zona completamente allagata dall’alluvione.

Che presente e futuro vogliamo?

Il punto è: che cosa ci serve? Strade, rotonde, centri commerciali, snodi viari sempre più larghi come il Passante di Mezzo sulla A14 in costruzione, nuove abitazioni magari per benestanti? O serve cura del territorio, quella cura che purtroppo, magari, è meno visibile e quindi meno spendibile elettoralmente ma è quella che protegge dal disastro? La crisi climatica ci mette di fronte a questo bivio e la risposta dovrebbe essere solo una. Ma decidere cosa ricostruire si basa anche su un altro aspetto, se possibile ancora più fondamentale. Ovvero capire quale presente e futuro vogliamo, che vita privata e collettiva vogliamo vivere, dove esattamente stiamo andando, in definitiva, chi vogliamo essere.

La scrittrice Rebecca Solnit ha detto in un articolo sul The Guardian che il nostro problema, quello dei negazionisti ma anche quello dei catastrofisti, è che non abbiamo un modello alternativo di società e di vita, che non sappiamo come potremmo essere altrimenti. Per cui il futuro o è cieco o va ricostruito uguale.

Dove sono finite le utopie

E proprio questo è il punto, che non mi stancherò di ripetere. La crisi climatica e i suoi effetti devastanti dal punto di vista dell’ambiente in cui viviamo è una crisi che ha cause etiche. Perché nasce e si alimenta dai nostri comportamenti, dai nostri modi di vivere e di pensare.

È su questo fronte che occorre lavorare, è su questo fronte che dobbiamo confrontarci, parlare, anche se le sedi per farlo non ci sono quasi più, perché i giornali dove un tempo si svolgeva un dibattito intellettuale ora inseguono la cronaca nera o lo showbusiness.

Non abbiamo più “ideologie”, intese come visioni del mondo che prevedevano un punto di arrivo verso cui tendere. Utopie. Giuste o sbagliate, ma almeno portatrici di una visione normativa sulla vita, non di un’accettazione dell’esistente così com’è, un esistente fatto solo di consumo senza idee. Se dovessi trovare uno slogan dei nostri temi, potrebbe essere: Just Eat. Mangiare. Punto. Senza pensare.

Riflessione, lettura, condivisione, relazione: alternative di felicità

Ma attenzione: pensare alternativamente, sperare alternativamente non significa per niente deprimere le nostre vite, condurre esistenze depresse e prive di tutto. Questo è quello che il capitalismo consumista ci vorrebbe far credere, ma così non è. Piuttosto, si tratta di capire cosa ci rende felici e, insieme, di scoprire che ciò che ci rende felici ha poco a che fare con i consumi. Ovvio, non consumare in una società in cui il consumo viene proposto come forma di felicità è complicato da sostenere, può persino essere un incubo, penso specie agli adolescenti che cercando disperatamente di essere simili agli altri. Ma se progressivamente si impongono modelli di felicità diversi, questo sarà progressivamente più facile. Mi ha colpito quanto ha detto Beatriz Flamini, l’alpinista rimasta in una grotta 500 giorni. «Leggevo, disegnavo, tessevo: ero felice».

Leggere, riflettere e avere un rapporto con se stessi. Questo può portare felicità. E poi ovviamente condivisione: dalle comuni alla vita insieme nella stessa casa, come ha raccontato di recente la scrittrice Michela Murgia. Oppure forme di convivenza di persone anziane in luoghi dove si può avere il proprio spazio di privacy, a esempio un piccolissimo appartamento, e poi tante zone comuni: ne ho visitata una, in Umbria, ho pensato quanto diverso era dal modello dell’anziano solo in casa con una badante. E più economico. Lo stesso si vede con i bambini, pure oggi così consumisti. Se un amico arriva a casa, la gioia è totale e ogni oggetto dimenticato. Vince la relazione.

Ricostruire edifici. Ma anche visioni

Insomma, se da un lato abbiamo bisogno di climatologi ed esperti di ogni tipo formati sul clima, dall’altro necessitiamo di filosofi, antropologi, scrittori e poeti che ci raccontino come si può essere felici altrimenti, anche riprendendo modelli del passato che possiamo riutilizzare nel presente e nel futuro. Non si tratta quindi solo di ricostruire edifici, ma anche visioni. Scienza e filosofia da sempre sono legate, e la divisione recente tra “scienze dello spirito” e “scienze della natura” è stata a mio avviso un errore enorme, così come lo è stato considerare la natura come un oggetto manipolabile di fronte a un soggetto libero da ogni vincolo.

Agli studenti nelle scuole spieghiamo la crisi climatica in ogni aspetto, raccontiamo loro i suoi effetti, parliamo di energie rinnovabili, decarbonizzazione, modelli di consumare, mangiare, vestire diversi. Ma, anche, facciamoli ragionare sui libri di filosofia, letteratura, storia dell’arte, perché possano capire che ci sono modi di pensare e di vivere diversi. Modi di vivere e pensare che, mentre ci gratificano profondamente, dall’altro non distruggono quell’ambiente che è la premessa indispensabile per la nostra sopravvivenza.

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