Diritti

Per essere sani dobbiamo lavorare più a lungo?

Secondo alcuni studi, il segreto per rimanere in salute è non andare in pensione. Le cose, però, potrebbero non essere così semplici, perché entrano in gioco fattori sociodemografici, economici e psicologici
Credit: ANTONI SHKRABA
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
16 maggio 2023 Aggiornato alle 15:00

Tra le tantissime questioni legate al mondo del lavoro, quella delle pensioni è un nodo cruciale, come mostrano le proteste che stanno infiammando da mesi la Francia che vorrebbe innalzare l’età della retraite da 62 a 64 anni.

Se per molti quello dell’addio al lavoro è il momento giusto per godersi il meritato riposo (magari dove la vita costa meno), alcuni articoli e studi sembrerebbero suggerire che il segreto per mantenersi in buona salute sarebbe… lavorare di più. Secondo la ricerca del 2015 del Cdc Preventing Chronic Disease statunitense, a esempio, gli over 65 che lavorano avrebbero 3 volte più probabilità di stare meglio fisicamente rispetto a chi è inattivo e il 50% di probabilità in meno di contrarre cancro o malattie cardiache.

Ma è davvero così? Secondo la ricerca Lavorare in età avanzata fa bene alla salute? Una revisione sistematica degli esiti di salute derivanti da una vita lavorativa prolungata, pubblicata su Bmc Public Healt nel 2021, che ha analizzato 17 studi, “l’estensione della vita lavorativa (in particolare a tempo parziale) può avere benefici o un effetto neutro per alcuni, ma effetti negativi per altri in lavori ad alta domanda o a bassa remunerazione. Esiste il potenziale per aumentare le disuguaglianze sanitarie tra coloro che possono scegliere di ridurre il proprio orario di lavoro e coloro che hanno bisogno di continuare a lavorare a tempo pieno per motivi finanziari. Mancano prove degli effetti sulla qualità della vita e scarsità di interventi che consentano ai lavoratori anziani di prolungare la loro sana vita lavorativa”.

Nel 2022, il 32% delle persone nel mondo tra i 65 e 69 anni aveva un lavoro, rispetto a meno di un quarto nel 2000. 2 decenni fa, quasi il 10% dei 55enni era in pensione; oggi, la cifra comparabile è di circa il 5%. La tendenza verso una vita lavorativa più lunga è diffusa. In Italia sono quasi 450.000 i pensionati che continuano a lavorare, di cui 383.600 over 65, ma anche all’estero i lavoratori “anziani” sono moltissimi: in Giappone e Corea del Sud lavora il 25,1% e il 34,9% degli over 65, negli Stati Uniti il 18,9% e in Svezia il 19,2%. Non è un caso: tutti questi Paesi prevedono politiche attive per incentivare il pensionamento posticipato. Ma anche la media Ue dei lavoratori che hanno tra 65 e 69 anni è del 13,2%. La durata della vita media si sta allungando parallelamente (nel nostro Paese è di 84,2 anni), segno di una correlazione tra le 2? Non esattamente.

Se è vero che secondo gli studi analizzati, infatti, lavorare più a lungo avrebbe effetti benefici o neutri sulla salute fisica dei dipendenti ed effetti misti sulla salute mentale, tuttavia “è più probabile che i benefici riportati riguardino i maschi, coloro che lavorano part-time o si riducono a part-time e i dipendenti con lavori che non sono di bassa qualità o bassa remunerazione”.

Eppure, chi continua a lavorare spesso lo fa proprio perché non può permettersi economicamente di lasciare: circa un terzo di coloro che lavorano oltre l’età pensionabile, infatti, dichiara di essere rimasto a causa di necessità finanziarie. Per questo, spiega la review, è possibile che “le politiche che prolungano la vita lavorativa, hanno un impatto negativo sulle disuguaglianze sanitarie in età avanzata e agiscono in modo differenziato nei sottogruppi della popolazione”.

Non solo: secondo lo studio del Cdc anche sesso, istruzione, razza/etnia, età, stato di obesità, storia di alcol e fumo e stato civile erano associati a diversi esiti sulla salute: “risultati più scarsi in tutte le misure sono stati associati con un’istruzione inferiore a quella delle scuole superiori (rispetto a un’istruzione superiore o superiore), con l’essere sottopeso o obesi (rispetto al peso normale), con l’essere neri non ispanici (rispetto ai non ispanici bianco), ed essere divorziati o separati (rispetto all’essere sposati)”.

Sebbene diversi studi confermino che c’è un’effettiva correlazione tra lavoro prolungato e salute fisica, quindi, questa correlazione non è universale: il pensionamento potrebbe avere un impatto diverso sulla salute, a seconda di diversi fattori sociodemografici, socioeconomici e psicologici, hanno spiegato anche gli autori di L’impatto della transizione al pensionamento sulla salute e sulle abitudini di vita: analisi da una coorte nazionale italiana.

Dopo il pensionamento, infatti, la salute e lo stile di vita possono cambiare a causa della perdita della routine quotidiana, dell’attività fisica e mentale, delle interazioni sociali e della riduzione del reddito. Sono stati infatti indagati in diverse occasioni i modi in cui il passaggio dalla vita lavorativa alla pensione modifichi determinate abitudini di vita, tra cui l’utilizzo dei social network, il fumo, il consumo di alcol, l’alimentazione e l’attività fisica. Allo stesso tempo, però, continua lo studio, “uscire da lavori impegnativi o stressanti e avere più tempo libero può essere benefico per il benessere psicologico”.

Insomma: lavorare più a lungo per vivere meglio? Non è detto. Le variabili che entrano in gioco sono moltissime, una correlazione non indica necessariamente un rapporto di causa-effetto e non solo perché salute e pensionamento sono collegati in modo bidirezionale: la pensione o il lavoro influenzano lo stato di salute ma “il pensionamento (cioè l’età pensionabile e il tipo di pensionamento) è influenzato dalla salute”.

Del resto, è lo stesso Cdc a dirlo: “questo studio ha utilizzato dati trasversali aggregati e pertanto non è possibile effettuare inferenze causali. Le informazioni sulla storia lavorativa passata non erano disponibili e, sebbene questo studio mirasse a esaminare gli effetti dell’occupazione in età avanzata, tali effetti possono variare a seconda che la persona sia rientrata nel mondo del lavoro dopo il pensionamento e se la persona abbia cambiato lavoro o sia rimasta occupata in carriera”.

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