Diritti

Cosa sarà mai un’ora di treno?

Si chiede agli studenti di fare i pendolari dimenticando che non solo non è sempre possibile, né giusto, ma anche che il caro-affitti non riguarda solo loro
Credit: Bayar Hayder
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
17 maggio 2023 Aggiornato alle 06:30

Non è obbligatorio vivere a Milano, puoi trasferirti in provincia e fare la pendolare”. “Cosa vuoi che sia un’ora di treno?” “Io ho fatto avanti e indietro per anni e sono sopravvissuto, possono fare lo stesso”.

Ogni volta che sento questa frase c’è qualcosa dentro di me che scatta. Forse perché io in provincia ci sono nata e cresciuta e perché ho sempre saputo che se avessi voluto fare l’università a 19 anni quella non sarebbe più stata casa mia.

La mia è una piccola città, sulla carta poco distante da alcune ottime università: 55 chilometri da Siena, 70 da Pisa, meno di 80 da Firenze. Distanze che sembrano irrisorie, soprattutto a chi vive in grandi centri in cui è normale spostarsi anche di decine di chilometri per raggiungere il posto di lavoro. Eppure, io - e come me tutti gli altri studenti - finite le superiori ho fatto le valigie e, chiamando una quantità spropositata di annunci e sottoponendomi all’esame impietoso di decine di casting da parte di potenziali futuri coinquilini, ho cercato un posto letto in affitto a Firenze. Nel centro di Firenze, per l’esattezza, così vicino da poter raggiungere l’Università a piedi.

Oggi, mentre gli studenti si accampano per protestare contro le cifre esorbitanti che hanno raggiunto gli affitti in particolare in città come Milano e Bologna, qualcuno mi direbbe che avrei potuto fare la pendolare. In fondo, “cosa sarà mai un’ora di treno per uno studente?”. Questa domanda è sbagliata, per diversi motivi.

Perché a volte è impossibile

I chilometri non vi traggano in inganno: fare l’Università da pendolare per me era quasi impossibile. Nessun treno, pochissimi autobus al giorno - l’ultimo dei quali con ritorno alle 17 - collegano casa mia con Siena e Firenze. Qualche autobus in più - con cambio e coincidenza obbligatori - agevola i collegamenti con Pisa. Autobus che sfidano il traffico in entrata nelle città al mattino e quello in uscita alla sera, e coincidenze che fanno sì che un viaggio di poche decine di chilometri non sia percorribile in meno di due ore.

Due ore al mattino e due ore al pomeriggio, solo per raggiungere la città, senza considerare spostamenti interni e l’incompatibilità con gli orari delle lezioni. Senza dimenticare la fatica - fisica ed emotiva. Sì, la fatica. Perché fare questi tragitti ogni giorno, tutti i giorni, per mesi, è stancante. Soprattutto in un Paese in cui i mezzi pubblici funzionano un giorno no e l’altro… no.

E la mia è solo una – e nemmeno troppo complicata – delle tantissime storie che rispondono con un “ecco perché no” alla domanda di chi non accetta che qualcuno non sia più disposto ad accettare quello che passa il convento. Perché il convento, ormai, passa ben poco.

Certo, ci sono persone che hanno affrontato fatiche ben più grandi per poter studiare, e che in alcuni Paesi del mondo lo fanno anche oggi. Ma la sofferenza degli altri non è, o non dovrebbe essere, una giustificazione o una scusa per desiderare che tutti soffrano allo stesso modo. Non potremmo, forse, cercare di migliorare la situazione per tutti invece di fare a gara a chi sta più male?

Perché non è giusto

Quello che il livore rancoroso contro gli studenti sembra far dimenticare è che l’esperienza della vita universitaria non è limitata alle sole ore di lezione o di studio. Che c’è un intero mondo, dentro e fuori le aule, che chi vive da pendolare e deve lottare con treni, coincidenze e levatacce non riesce a vivere appieno. Non facciamo finta di non sapere che vivere in centro a Milano o in uno paesino dell’hinterland o della provincia dal nome bizzarro che finisce in -ago e -ate non è la stessa cosa. Senza contare che, ormai, anche affitti nelle periferie di Milano hanno raggiunto cifre difficilmente abbordabili.

Quando sono arrivata all’università, il solo fatto di poter assistere alla presentazione di un libro in presenza di autori che avevo solo letto sulla carta mi è sembrato qualcosa di straordinariamente importante. E lo era.

Studiare in una città piuttosto che in un’altra significa partecipare alla vita culturale, alla vita studentesca e sì, anche poter godere dei divertimenti che quella città offre.

Esperienze che rappresentano tanto quanto corsi ed esami un tassello fondamentale della formazione individuale. L’università non è solo pane, e le rose non possono essere un’esclusiva di chi si può permettere di pagare affitti stellari. Vogliamo tutto, e perché dovremmo accontentarci di meno?

Perché non riguarda solo gli studenti

Gli studenti - pigri bamboccioni viziati che si limitano a perdere tempo con i soldi di mamma e papà dietro o ingenui sognatori che pretendono che il mondo sia a loro disposizione, e pretendono addirittura dei diritti, pensi un po’ Contessa - sono il capro espiatorio perfetto. Il caro affitti, però, non è un problema solo per gli universitari.

C’è un esercito di precari, partite Iva, dipendenti sottopagati, dipendenti con contratti “normali” a 1.200 euro al mese, single ma anche famiglie che non possono permettersi una casa perché i prezzi sono ingiustificatamente gonfiati da una domanda sempre crescente. Forse questo sorprenderà chi sui social e sui giornali vuole spiegarci che queste sono le regole del libero mercato, ma la casa è un diritto. Ed essere poveri non è una colpa che deve essere scontata continuando ad accontentarsi di standard sempre più bassi per non disturbare chi ha i soldi e, quindi, il potere.

Senza dimenticare che, oltre ai soldi, chi affitta una casa chiede garanzie sempre più rigide. E chi non le ha? Invece che presentarci come “nuovo trend” il fatto che lavoratori quarantenni dividano gli appartamenti, dovremmo guardare dietro le storie che ci raccontano e dietro le parole. Si dice sharing ma non c’è niente di diverso dai vecchi coinquilini, ma abbiamo bisogno di trovare nuovi frame per non ammettere che non è normale che persone che lavorano non possano permettersi uno spazio personale ma siano costrette a dividere la propria casa con altri sconosciuti che, come loro, non hanno altra scelta.

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