Diritti

Anche i migranti hanno una mamma

Quando si parla di migrazione forzata, spesso ci si sofferma solo su chi parte e non si pensa quasi mai alle madri che, invece, restano. E attendono per anni una telefonata che non sempre arriva
Credit: AP/Darko Bandic
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14 maggio 2023 Aggiornato alle 13:00

«Quando ho telefonato a mia mamma, arrivato in Italia 4 anni dopo essere partito dal Mali, lei mi ha risposto: “Lasciatemi in pace con il mio dolore, mio figlio è morto”. Ho dovuto faticare molto per farle capire che ero io, che ero Amadou, il suo amato ragazzo. Le ho raccontato particolari della mia e della nostra vita che potevo sapere solo io. E allora è scoppiata a piangere, non riusciva più a parlare».

Questo è il racconto straziante di Amadou, ragazzo fuggito dal Mali travolto dal confitto civile a nemmeno 14 anni, giunto in Italia nel 2017 e, ora, chef a Rimini, dopo essere passato per il Niger e l’orrore della Libia.

Questa è la storia di 2 viaggi drammatici: da una parte c’è il percorso di un ragazzino appena adolescente che lascia gli affetti, le sicurezze e trova violenze, abusi, il terrore di essere in balia dei trafficanti e va verso l’ignoto; dall’altra, c’è il viaggio negli abissi che compie la mamma. Senza notizie, telefonate, messaggi per mesi, anni, costretta giorno dopo giorno ad aggiungere certezze su certezze riguardo la tragica sorte del figlio e l’angoscia di non poter neanche piangerlo sulla tomba.

Quando si parla di migranti, di sbarchi, di flussi, molto spesso si fa fuori l’umanità, si cancellano volti e storie, frullando tutto in una massa informe, e sembra come se il singolo individuo che arriva sulle nostre coste dopo viaggi infernali (frutto di un sistema criminogeno “legalizzato” dalla Ue) sia stato concepito sui barconi e che non abbia una storia, una famiglia, non si lasci indietro nulla. Neanche una madre.

Nel corso del mio lavoro di inchiesta incentrato sul fenomeno dei bambini migranti che viaggiano da soli, poi confluito nel testo Il Bagaglio. Storie e numeri del fenomeno dei minori stranieri non accompagnati (Albeggi, 270 pagine, 14,25 euro), così come nella parte di attività giornalistica che dedico da più di 15 anni al fenomeno delle migrazioni forzate, mi sono imbattuto in tantissime storie di ragazzi e ragazze in viaggio verso la sponda nord o est del Mediterraneo. Molti di loro, specie i più giovani, nei racconti di migrazione, facevano spesso riferimento alle proprie madri (anche ai padri).

Il rapporto struggente, la malinconia, la profonda solitudine, la sensazione di vuoto senza la presenza protettiva della mamma, il timore di deluderla, di darle preoccupazioni, emergevano spesso come parte determinante dell’esperienza migratoria. In alcuni casi, i ragazzi con cui sono rimasto in contatto, hanno parlato di me alla mamma o mi ci hanno messo in contatto sebbene a distanza.

I colloqui con loro mi hanno fatto pensare insistentemente all’altra parte del fenomeno, al viaggio che chi rimane a casa fa assieme ai propri figli, ricco di terribili angosce, preoccupazioni, frustrazioni, sensazioni di non essere buoni genitori, timori, nel caso i figli scappino da regimi totalitari, di venire targettizzati. Di incubi e certezze di morte.

La mamma di Amadou, a esempio, non sapeva che l’ insegnante coranico del figlio, approfittando del caos nel Paese, lo aveva rapito e gli impediva di avere contatti con la famiglia ed era perciò sicura che fosse rimasto coinvolto in uno scontro a fuoco.

«Mia mamma non voleva che partissi - dice Jerreh Jaiteh, un gambiano ora meccanico 25enne a Montecchio Emilia (Reggio Emilia), fuggito dalla feroce dittatura di Yahya Jammeh (ora fortunatamente cacciato da un Gambia finalmente democratico) - ma io non avevo altra scelta. Volevo studiare, essere libero e aiutare la mia famiglia molto povera. Lei insisteva: “Non andare, non vivrò più se ti succede qualcosa”. Era molto preoccupata perché ero minorenne e sapeva dai notiziari che molti ragazzi morivano o subivano violenze».

Da quel momento per Jerreh comincia l’inferno del viaggio, per la mamma le notti insonni e l’inappetenza. «Fin dall’inizio, il viaggio si è rivelato molto pericoloso, con violenze e botte, e ho scelto di non telefonarle perché avrebbe capito le mie paure, le mie sofferenze. Ho chiamato mio fratello per farmi mandare qualche soldo e gli dicevo di dire a mamma “che sto bene”. L’ho sentito in Burkina Faso, una volta in Niger e poi in Libia».

A Tripoli Jerreh subisce violenze e vive nel terrore, sono tutti armati, anche i ragazzini e ogni giorno si rischia la vita. Nel percorso che dalla Libia lo conduce in Sicilia, ha un forte malore e perde conoscenza. Viene prelevato da un elicottero e salvato al momento dello sbarco. «Quando mi sono rimesso, ho finalmente potuto chiamare mia mamma e parlare con serenità. Lei piangeva, non aveva creduto alle notizie che le dava mio fratello, pensava fossi morto o che mi fosse successo qualcosa di brutto. Aveva smesso di mangiare, non dormiva più».

Jerreh è poi ritornato in Gambia a riabbracciare la mamma e i fratelli, ma non ha mai raccontato nulla dei tanti pericoli corsi, della morte vista più volte in faccia a soli 15 anni: «Ora sta bene, perché farla soffrire»?

C’è bisogno di un cambio di narrativa nel racconto delle migrazioni. Il mondo parallelo di chi resta reclama una disperata voce. Pochi sanno, a esempio, che esistono diverse associazioni di familiari di migranti sorte in vari Paesi africani o mediorientali, senza più comunicazioni con i propri cari (spessissimo figli) che chiedono notizie. Anche se, verosimilmente, drammatiche: per molti è peggio vivere vite sospese nella speranza di rivedere o risentire una persona cara piuttosto che saperla morta e poterla piangere.

«Siamo partiti in 2 - racconta Abou, un guineano ora 23enne impiegato in un supermercato di Rimini - io e il mio fratellino Laye. Io avevo 15 anni, lui 13. Abbiamo lasciato Conakry perché per noi non c’era futuro. Non abbiamo detto a mamma che saremmo partiti perché eravamo piccoli e non volevamo che si preoccupasse».

I bambini, totalmente ignari di quello che sarebbe loro accaduto, immaginavano di riuscire a chiamarla dopo pochi giorni e dirle che stavano bene. «Sono passati mesi, non avevamo il telefono, i trafficanti te lo rubano o era impossibile chiamare dal deserto». Finalmente, arrivati in Algeria, riescono a parlare con la mamma. «Era distrutta, non mangiava più, non dormiva, ci aveva cercato dappertutto, pensava di aver perso 2 figli».

Poi, altri mesi di angoscia, per l’esattezza 4, quelli passati dai 2 in Libia; poi, finalmente, l’arrivo in Italia, l’offerta nel centro di accoglienza di una scheda telefonica e la possibilità di sentire con regolarità la madre. «Piangeva a dirotto, e io a dirle non piangere stiamo bene».

Attorno alla migrazione forzata di un singolo, girano storie, rapporti, cultura, affetti, amori, microcosmi di drammi personali di cui nessuno tiene conto. È fondamentale curarsi dell’aspetto umano, sociologico e antropologico, raccogliere le voci di chi va e di chi resta a casa e attende, a volte per sempre, lo squillo rassicurante di un telefono al cui capo c’è un figlio.

Per questo, con la collaborazione di colleghi, è nato Mums, progetto di raccolta di testimonianze di mamme di Paesi diversi, che raccontano la loro esperienza riguardo la migrazione dei figli: il periodo pre-viaggio, il viaggio, l’organizzazione della vita senza uno o più figli, la “telefonata” (positiva o non), le ansie per l’integrazione e il successo del progetto migratorio del figlio, l’attesa delle rimesse, i pianti, le angosce, la felicità di rivederli dopo anni.

Insomma l’umanità vera, senza finzioni, delle migliaia di migranti e dei loro cari. L’output del progetto in cerca di sponsor prevede una serie di singoli articoli e una raccolta finale di tutte le testimonianze in un testo; la produzione di podcast e la realizzazione di un corto. Un lavoro di umanizzazione del fenomeno migratorio tutto al femminile e dedicato a mamme eroine, costrette da un sistema impietoso a vivere senza i propri figli, anche se piccoli e bisognosi di carezze. E ai tanti Amadou, Abou, Jerreh, la meglio gioventù che il nostro Paese ha la fortuna di ospitare.

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