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Come il climate change condiziona piante e animali?

Uno studio dell’Università di Aarhus ha tentato di calcolare i possibili effetti dell’estinzione di alcune specie di uccelli e mammiferi “impollinatori” sul mondo vegetale
Caterina Tarquini
Caterina Tarquini giornalista
Tempo di lettura 3 min lettura
9 febbraio 2022 Aggiornato alle 21:00

Negli anni ‘40, una nave mercantile faceva sbarcare un clandestino a Guam, l’isola più a sud nell’arcipelago delle Marianne: il serpente dagli alberi marroni. Il suo inserimento all’interno dell’ecosistema determinò la distruzione di intere catene alimentari e l’estinzione di quasi tutte le specie di uccelli presenti su Guam. Il nuovo abitante dell’isola provocò infatti un disastroso effetto domino su molte famiglie di alberi, la cui proliferazione dipendeva proprio da quei volatili che si nutrivano dei loro frutti, per poi disperderne i semi.

Nella storia del nostro Pianeta non si tratta di un episodio isolato. Oggi interi ecosistemi sono in pericolo per il declino di particolari specie di uccelli o mammiferi di tutto il mondo.

Uno studio pubblicato su Science, condotto da alcuni ricercatori statunitensi e danesi presso l’Università di Aarhus, ha calcolato l’impatto del cambiamento climatico sulle piante che dipendono dagli animali.

Gli scienziati hanno creato modelli in grado di prevedere due tipi di interazione tra flora e fauna: la germinazione e la superficie di dispersione dei semi. Gli studi precedenti sul fenomeno utilizzavano una semplice equazione: più le dimensioni dell’animale sono grandi, più lontano può trasportare il seme.

Questo ragionamento non può essere applicato alla lettera, ma occorre considerare altri fattori che variano in base alla situazione esaminata. Per esempio, due uccelli con massa corporea simile potrebbero adottare strategie molto diverse, uno potrebbe viaggiare per lunghe distanze mantenendosi sopra la foresta, mentre l’altro potrebbe volare per distanze più brevi sotto la chioma degli alberi. I due comportamenti finirebbero per determinare due distinti gradi di dispersione.

I ricercatori hanno messo a punto un modello servendosi di migliaia di dati relativi a interazioni pianta-animale, per esempio quelle del bucero corrugato e del lemure dal collare, una delle più grandi scimmie dell’Africa sud-orientale. La maggior parte dei dati riguardano specie che in un modo o nell’altro hanno condiviso gli stessi habitat per centinaia di migliaia di anni. Purtroppo, il cambiamento climatico sta modificando questi intervalli di tempo, facendo sì che specie che non si sono mai evolute insieme occupino contemporaneamente lo stesso spazio.

Con quali conseguenze? In molte regioni del mondo, il numero di mammiferi o gli uccelli in grado di trasportare semi a lungo raggio risulta decimato. In America centrale, alcune specie di animali possono garantire 1 km di dispersione, in Africa fino a 5 km. In uno scenario diverso, senza l’impatto dell’uomo o l’introduzione fortuita di nuove specie, questi animali riuscirebbero a trasportare una quantità di semi nettamente superiore.

In media per le piante interessate da questo fenomeno vi è il 60% di possibilità in meno che i loro semi riescano a spostarsi in ambienti nuovi e con condizioni più favorevoli.

Oltre a un approccio conservativo, servirebbero progetti di ripristino e di reinserimento negli ecosistemi di alcune specie animali. Sembrerebbe una prospettiva realizzabile: tra il 2010 e il 2017 in Brasile, per esempio, gli ambientalisti hanno reintrodotto l’aguti dalla groppa rossa e la scimmia urlatrice marrone nel Parco Nazionale di Tijuca.