Diritti

Le discriminazioni si combattono (anche) con le parole

Hai mai sentito frasi ipersessualizzanti e stereotipate contro i corpi neri? Dobbiamo decolonizzare la lingua e combattere il pregiudizio: qualcuno nel mondo dello sport e dello spettacolo ci ha già provato. Ma non basta
Credit: Cottonbro studio
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7 maggio 2023 Aggiornato alle 06:30

Accantonare il privilegio bianco e parlare di black bodies senza commettere errori non è semplice: la scelta delle parole, del tono, addirittura del ritmo del discorso diventano fondamentali. Questa difficoltà, però, è nulla se paragonata a quella affrontata da grandi persone che nella storia hanno avuto la forza, il genio e la tenacia per combattere le discriminazioni. Il mondo dello spettacolo, dello sport e dell’arte sono stati spesso contesti in cui, grazie all’espressione di un talento, si prova a fare la resistenza e, talvolta, la rivoluzione.

Un esempio fra tanti è Joséphine Baker, artista innovativa ma anche spirito libero che ha saputo costruirsi quella libertà necessaria proprio a far crescere le sue capacità. Comicità, ironia e dedizione sono solo alcune delle caratteristiche che ci ricordano che Joséphine Baker è stata una pioniera nello spettacolo e nell’intrattenimento, ma anche simbolo della lotta per i diritti civili e umani.

Erano gli anni ‘20 in America: troppo presto per voler far spettacolo, troppo presto per spogliarsi davanti a un pubblico, troppo presto per essere libera di sedurre uomini bianchi attraverso, anche, il proprio corpo. Troppo per una donna e per una donna nera, ma lei lo ha fatto e ha fatto anche di più.

Baker, infatti, ha voluto sempre di più. Cercava di contribuire alla costruzione di un mondo, di un pubblico migliore, più aperto e inclusivo in un momento storico in cui questa parola non andava così tanto di moda. Ha costruito anche una famiglia che oggi verrebbe definita arcobaleno: ha infatti adottato 12 bambini da tutto il mondo e nei suoi primi contratti ha imposto clausole di non discriminazione per il suo pubblico.

Erano gli anni ‘20; ma ancora di strada ne dobbiamo fare: non sono bastate le varie Joséphine Baker e le lotte sociali portate avanti fino a ora. Oggi un ragazzo nero con il cappuccio della felpa indossato che cammina per la strada può diventare, senza motivi apparenti, un bersaglio delle istituzioni che dovrebbero proteggere e garantire l’ordine e la giustizia. O ancora: il corpo delle ragazze e dei ragazzi neri non è rappresentato a sufficienza in ambienti che dovrebbero essere inclusivi e sicuri. Quante volte poi, nelle nostre conversazioni, capita di sentire espressioni sessiste, giudicanti, capaci di oggettivizzare i corpi delle persone Bipoc, portandosi dietro concetti, più o meno nascosti tra le righe, propri di una concezione colonialistica della società.

Ancora oggi all’interno delle istituzioni non c’è tutela e regna, a volte, la discriminazione, spesso anche in modo tristemente palese. E quando il pregiudizio dilaga, nessuno è escluso. Eccellenze del mondo dello sport come LeBron James e Kobe Bryant hanno da sempre manifestato contro le politiche divisive e le condizioni di violenza che molte persone erano (e sono ancora) costrette a sopportare.

Dal Black Power della fine degli anni ’60 al più recente Black Lives Matter, lo sport come forma espressiva e, quindi, specchio della società si è sempre schierato dalla parte di chi cerca il riconoscimento di quei diritti che dovrebbero essere i pilastri di qualsiasi contesto umano.

Questo quindi cosa significa? Per chi è bianco o bianca e cresciuto/a in una società fortemente occidentalizzata è probabile (forse quasi certo) che almeno una volta sia capitato di pronunciare frasi in cui le persone nere venissero ipersessualizzate, stereotipate, oggettivizzate e tutto questo probabilmente senza rendersene conto.

Cosa possiamo fare per recuperare e decolonizzare il nostro linguaggio? La risposta come spesso accade passa dall’aprire la mente e dalla capacità di ascoltare, osservare e conoscere orizzonti alternativi. Analizzare coscientemente e scegliere di cambiare le nostre parole diventa un atto di attivismo e resistenza, ma non solo: è anche un modo per mostrare più rispetto a chiunque ci circondi.

Ribaltare gli stereotipi, ripartire dall’opposto, distruggere per ricreare.

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