Diritti

Hollywood: perché gli sceneggiatori scioperano?

Dopo 15 anni, gli scrittori cinematografici e televisivi tornano a incrociare le braccia contro il mancato accordo riguardo il rinnovo del contratto triennale. L’ultima volta, la protesta era durata oltre 100 giorni
Dettaglio dell'outfit di Choi So-ra al Met Gala 2023
Dettaglio dell'outfit di Choi So-ra al Met Gala 2023 Credit: EPA/JUSTIN LANE
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
2 maggio 2023 Aggiornato alle 21:00

«Tutto è cambiato con lo streaming e tutti dovrebbero essere ricompensati per il loro lavoro. È f*****amente facile». L’ha fatta semplice Amanda Seyfried, intervistata riguardo il potenziale sciopero del Writers Guild of America (Wga) sul red carpet del Met Gala 2023. Peccato che lo scontro, che vede contrapposti 11.500 sceneggiatori ai principali studi cinematografici (Disney e Paramount) ma anche i colossi dello streaming (come Netflix, Amazon e Apple) e che secondo il New York Times ha “mandato in frantumi 15 anni di pace sindacale”, sembra tutto fuorché semplice.

Oggi, per la prima volta dal 2007, gli sceneggiatori cinematografici e televisivi rappresentati dalla Writers Guild of America hanno lasciato cadere la penna (o, meglio, chiuso la tastiera) dando inizio a uno sciopero votato dal 98% dei 9.000 iscritti al sindacato a metà aprile, poco prima della scadenza del loro contratto triennale.

È proprio riguardo il rinnovo del contratto che si gioca tutta la vicenda. Secondo il sindacato, infatti, nel decennio della Peak TV l’ascesa dei servizi di streaming e l’esplosione della produzione televisiva ha peggiorato significativamente le condizioni di lavoro: mentre il numero di programmi televisivi è aumentato notevolmente, la paga degli scrittori sarebbe rimasta ferma o addirittura diminuita, così come il numero di episodi di ciascuna serie (e con esso la possibilità di assicurarsi un reddito annuale).

Secondo quanto riportato da Variety, quindi, il sindacato chiede un aumento netto di stipendio per tutti i ruoli del 6% e un “un minimo di sceneggiatori nell’ambito televisivo che andrebbe da 6 a 12 in base al numero di episodi” per “un minimo garantito di settimane di lavoro a stagione, da 10 a 52 settimane”.

Un altro punto critico è quello dei cosiddetti residuals. “Anni fa - ha spiegato il Nyt - gli scrittori potevano ricevere pagamenti ogni volta che uno spettacolo veniva concesso in licenza, in syndication o attraverso la vendita di dvd. Ma i servizi di streaming globali come Netflix e Amazon hanno interrotto quei bracci di distribuzione e pagano invece un residuo fisso”, a prescindere dal successo dello show. Il mancato corrispettivo per ogni replica (perché sulle piattaforme streaming i contenuti rimangono disponibili a tempo indeterminato e non si conoscono di dati relativi alle visualizzazioni effettive), si tradurrebbe in retribuzioni anche 100 volte inferiori rispetto al passato.

L’Alliance of Motion Picture and Television Producers, che si occupa delle negoziazioni col sindacato per conto delle società di Hollywood, ha dichiarato che la sua offerta di rinnovo includeva “generosi aumenti di compenso per gli scrittori” (tra il 2% e il 4 % a seconda dei ruoli) ma che le proposte sindacali che chiedono alle aziende di assumere un certo numero di scrittori per un determinato periodo di tempo “indipendentemente dal fatto che sia necessario o meno” sono inaccettabili, così come la richiesta dei residuals, incompatibile con la nuova economia dello streaming.

I sindacati, però, spiega il New York Times, hanno preso di mira anche le cosiddette miniroom, che sono proliferate nell’ultimo decennio. “Non esiste una definizione di miniroom. Ma in un esempio, gli studi convocano un piccolo gruppo di scrittori prima che a uno spettacolo venga dato il via libera ufficiale per comporre una sceneggiatura. Ma gli scrittori sono spesso pagati meno per lavorare nelle miniroom, hanno detto i funzionari Wga”.

A essere più basso, però, non sarebbe solo il compenso, ma anche il coinvolgimento nell’intero progetto e, quindi, la possibilità di crescere e formarsi, imparando come si realizza davvero uno spettacolo televisivo. Mike Schur ha dichiarato che quando era un giovane scrittore di The Office ha imparato non solo a scrivere una sceneggiatura, riscriverla e modificarla, ma anche a lavorare con gli attori e acquisire familiarità con mestieri specializzati, come la scenografia e il mixaggio del suono. «Questa non è roba che puoi leggere in un libro - ha detto in un’intervista citata dal Nyt - Questa è roba che devi provare». Ai giovani autori, però, questa esperienza è preclusa: solitamente dopo 10 settimane vengono mandati a casa, senza essere presenti durante il processo di produzione.

La minaccia al lavoro degli sceneggiatori non sembra arrivare solo dalle nuove strutture organizzative, ma anche dagli sviluppi dell’intelligenza artificiale. Per questo, un’altra delle richieste poste sul banco dalla Wga è che venga regolamentato l’uso dell’AI o, meglio, che strumenti come ChatGPT non possano essere impiegati nell’ambito della scrittura per tv, cinema e streaming. Wga, sempre secondo quanto riportato da Variety, avrebbe chiesto che l’AI “non possa scrivere o riscrivere materiale letterario e non possa essere usata come materiale di partenza”.

Quello iniziato oggi, 2 maggio, non è il primo sciopero degli sceneggiatori, che hanno protestato altre 6 volte nel corso dei decenni, mostrando una grande unità di categoria e una notevole resistenza. Oltre allo sciopero di più di 100 giorni nel 2007, infatti, nel 1988 i lavoratori hanno partecipato a picchetti per ben 153 giorni. L’ultima volta l’economia di Los Angeles ha perso circa 2,1 miliardi di dollari, mentre serie tv e film subivano ritardi o brusche battute d’arresto.

Oggi a rischiare di fermarsi per primi sono i talk show notturni, mentre film e serie tv potrebbero resistere più a lungo, soprattutto grazie al fatto che durante il lockdown a bloccarsi è stata solo la produzione, non la scrittura di nuovi prodotti.

Ma a preoccupare le Major dei cinema e spettacolo non è solo lo sciopero. Dopo l’aumento dei prezzi, Disney+ ha registrato una perdita di 2 milioni di abbonamenti, pari a 1,5 miliardi: una crisi che hanno pagato 7.000 dipendenti, ovvero il 3,6% della forza lavoro, di cui l’azienda ha annunciato il licenziamento a febbraio.

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