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Che cos’è il childism?

Spesso chiamato anche adultism, è il pregiudizio nei confronti dei più piccoli, considerati inferiori rispetto agli adulti. Esiste però una seconda accezione, positiva: “femminismo, ma per i bambini”
Credit: Envato
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 8 min lettura
29 aprile 2023 Aggiornato alle 17:00

Gli habitués di Twitter lo sanno: ci sono discussioni che tornano ciclicamente, flame dopo flame. Cornetto o croissant, la cena la paga lui o lei e gli ultimi superstiti a usare la moka sono i grandi dubbi dell’umanità che sembrano non stancare mai gli utenti del social di Musk. C’è un tema che però, più di tutti, sembra infiammare gli animi e le tastiere: i bambini in pubblico.

Rumorosi, maleducati, insopportabili, i bambini sono diventati il bersaglio ideale dell’insofferenza social e di chi, dell’odio nei confronti di piccoli e piccolissimi, ha fatto un tratto distintivo del proprio carattere, rivendicandolo orgogliosamente.

Essere infastiditi dal pianto o dai capricci dei bambini altrui è legittimo, così come è sacrosanto decidere di non volere figli. Pretendere che i genitori si chiudano in casa con i loro poppanti urlanti (hai voluto la bicicletta?) e che, se proprio non possono fare a meno di uscire (solo se è proprio necessario), siano pronti a correggere ogni comportamento potenzialmente fastidioso per gli adulti a suon di botte, lo è decisamente meno.

Dopo anni di retorica sulle “mamme pancine” e, insieme, di assurde pretese da parte chi vuole sentirsi riconosciuto il santo merito di aver messo al mondo una vita, ci siamo dimenticati che esiste anche una via di mezzo. Quello che riempie i feed, però, non è un fenomeno solo italiano, né limitato al mondo dei social: il pregiudizio nei confronti dei bambini (e la loro discriminazione), infatti, è molto più radicato di quanto pensiamo e influenza perfino le leggi che regolano la società.

Alcuni lo chiamano childism, altri adultism, ma il concetto di fondo non cambia. Di cosa si tratta?

Childism: cosa significa?

Il termine childism ha un doppio significato: può, infatti, riferirsi sia alla difesa dell’emancipazione dei bambini come gruppo soggiogato, che al pregiudizio e/o alla discriminazione nei confronti dei bambini o delle qualità infantili.

Nel primo caso, quindi, indica un movimento positivo: il childism, spiega il Childism Institute nel pampleth Childism: an introduction, “è come il femminismo, ma per i bambini. È emerso nella letteratura accademica come un termine per descrivere gli sforzi per potenziare le esperienze vissute del terzo dell’umanità che sono bambini attraverso la critica sistemica radicale delle norme accademiche, sociali e politiche”.

La seconda accezione è invece critica: identifica, infatti, un fenomeno negativo ai danni di un gruppo di persone discriminate (come il termine razzismo). Alcuni parlanti anglofoni utilizzano per questa seconda casistica il termine “adultism”, inteso come “una condizione sistemica che favorisce la stereotipizzazione e l’impotenza dei giovani. Un adultista posiziona gli adulti come superiori ai bambini indipendentemente dai meriti. Lo sforzo per comprendere un problema dal punto di vista del bambino è visto come potenzialmente corrosivo per lo status sociale superiore dell’adulto. Il compromesso con un bambino è quindi considerato una sconfitta”.

Childism è però il termine che si è diffuso maggiormente per definire questo fenomeno, prima grazie agli psichiatri Chester Pierce e Gail Allen che, nel 1975, lo hanno utilizzato per descrivere l’oppressione universale creata da atteggiamenti e pratiche anti-bambini, definendolo come “l’assunzione automatica della superiorità di qualsiasi adulto su qualsiasi bambino” e, in seguito, grazie al lavoro della dottoressa Elisabeth Young-Bruehl e del suo saggio Childism: Confronting Prejudice Against Children, in cui sostiene l’esistenza di un pregiudizio nei confronti dei bambini come gruppo paragonabile al razzismo, al sessismo e all’omofobia.

Childisim: come si manifesta?

Le manifestazioni del pregiudizio nei confronti dei bambini sono così radicate nel modo in cui siamo soliti approcciarci all’infanzia che è difficile persino riconoscerle. Alla radice, c’è la convinzione che i bambini, essendo naturalmente dipendenti dagli adulti, siano loro sottoposti. Che non siano delle persone a tutti gli effetti e che, quindi, non abbiano gli stessi diritti di chi bambino non è più.

Facciamo qualche esempio. Siamo abituati a considerare perfettamente normale che i genitori prendano decisioni che riguardano i figli senza consultarli, anche se è proprio delle loro vite o del loro corpo che si parla: non solo i vestiti che indossano o il taglio di capelli, ma anche decisioni che hanno effetti profondi, come la scelta di una fede religiosa o di una scuola, talvolta irreversibili, come la circoncisione. In fondo, i bambini non sanno cosa vogliono e cosa è meglio per loro.

Per questo, spesso parliamo dei minori come se non fossero nella stanza, o ci rivolgiamo ai loro genitori per fare domande a cui sarebbero perfettamente in grado di rispondere. Non solo: non ci stupiamo se un adulto esercita il proprio potere sui bambini solo in virtù del suo status, appunto, di adulto. Lo riteniamo normale, parte del naturale processo di educazione all’obbedienza, alla vita e alle sue ingiustizie. “Si fa così perché l’ho detto io”.

Come normale riteniamo insegnare ai bambini a non avere diritti sul proprio corpo in termini di consenso, forzandoli a contatti non desiderati sulla base di ricatti emotivi (“dammi un bacino sennò piango”), o condividendo in rete anche i loro momenti più intimi e privati, magari mettendo alla berlina le loro emozioni “esagerate” invece di tentare di empatizzare con loro.

Soprattutto, però, anche se le cose stanno lentamente cambiando, continuiamo a ritenere normale che i bambini debbano essere educati a suon di violenza verbale e fisica. Le punizioni corporali sono ancora legali in moltissimi Paesi, Italia compresa. Inorridiamo (giustamente) solo all’idea che un uomo possa utilizzare la violenza per punire o educare la compagna, ma l’età cambia le prospettive: nessuno si sognerebbe di dire pubblicamente che una donna che sbaglia si merita gli schiaffi.

Invece ci sono tantissime persone (che magari si dicono femministe) che rivendicano non solo la legittimità, ma anche la necessità, dello schiaffo educativo, quando non di crescere i figli in un regime di terrore in cui se ci si comporta bene lo si fa per paura delle botte, se ci si comporta male se ne portano i segni sulla pelle, e sotto.

Tutto questo, però, normale non è. È frutto di un pregiudizio è le sue conseguenze sono una discriminazione sistemica. Una discriminazione che passa anche dalla rivendicazione dell’odio nei confronti dei più piccoli e del desiderio di eliminare tutto ciò che l’infanzia porta con sé perché interferisce con quello che gli adulti ritengono giusto e credono sia loro dovuto.

Quando il pregiudizio diventa legge

Una discriminazione che passa anche attraverso le leggi: non solo quelle che consentono ai genitori di picchiare i figli, purché l’intento sia educarli, o quelle che criminalizzano la fuga da casa o le ripetute disobbedienze ai genitori (la cosiddetta “incorreggibilità” presente in alcuni stati Usa).

Nonostante le leggi a tutela dell’infanzia, come la Convenzione sui diritti del bambino delle Nazioni Unite affermino che l’interesse superiore del minore dovrebbe essere una considerazione primaria nei procedimenti legali e amministrativi, spiega Rebecca Adami della University of Stockholm, “ciò che è nell’interesse superiore del bambino tende a essere definito attraverso gli adulti e i loro interessi”. Gli interessi degli adulti sono prioritari in molti campi, dice nel suo articolo Childism: how discrimination against children plays out in law, dall’affidamento al welfare: “una ricerca in Svezia ha rilevato che il diritto dei bambini al sostegno sociale tende a essere determinato principalmente attraverso le rivendicazioni degli adulti in famiglia”.

Non solo: secondo la Convenzione, quando sono in discussione questioni relative ai bambini dovrebbero essere valutate le “capacità evolutive del fanciullo”. Ciò, conclude Adami, “potrebbe mettere a tacere le voci dei bambini sui propri diritti, poiché un bambino potrebbe essere considerato troppo immaturo o non pronto per avere voce in capitolo nella propria vita”.

Come superare i pregiudizi contro i bambini?

Superare il pregiudizio che abbiamo nei confronti dell’infanzia non significa che i bambini debbano essere lasciati liberi di fare quello che vogliono né, continua Adami, che debbano essere trattati come adulti: “questa uguaglianza formale può essere ingiusta nei confronti dei bambini, poiché le loro circostanze specifiche saranno diverse da quelle di un adulto. Ciò che significa è, a esempio, garantire che un bambino abbia il diritto di essere ascoltato su questioni che lo riguardano e che le sue opinioni non vengano respinte semplicemente perché sono le opinioni di un bambino”.

Significa, in poche parole, fare un rivoluzionario cambiamento di prospettive, iniziando a considerare i bambini per quello che sono: persone. Molto piccole, a volte fastidiose, difficili, incomprensibili. Ma persone.

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