Futuro

La censura dei media digitali

Ci si preoccupa di salvare la libertà di espressione opponendosi alla chiusura di TikTok. Ci si impegna per bloccare o ridicolizzare gli interventi delle autorità che contrastano lo strapotere delle piattaforme digitali. Una forma di censura ha già colpito
Credit: Pavel Danilyuk
Tempo di lettura 6 min lettura
20 aprile 2023 Aggiornato alle 06:30

Facebook. ChatGPT. TikTok. Le piattaforme digitali più usate sono anche le più controverse. E una convinzione si fa strada tra i governi e le autorità di tutto l’Occidente: le regole che governano i media sociali digitali e le interfacce per la comunicazione più o meno artificialmente intelligenti vanno riformate.

Sulle ricette da applicare ci sono però opinioni divergenti, anche per la difficoltà di equilibrare i diversi diritti che le riforme devono difendere: privacy, libertà di espressione, concorrenza, sicurezza, libertà di innovazione, e così via.

Intanto, le reazioni dei commentatori alle proposte di riforma e agli interventi delle autorità sono varie e spesso scomposte. Si aggregano intorno a diverse ideologie: la fiducia sfrenata nel capitalismo che pretende di agire in assenza di regole; la fede incrollabile nel progresso che pretende di rinnovare le tecnologie senza occuparsi preventivamente delle loro conseguenze; la sfiducia, vagamente illiberale e antidemocratica, in qualsiasi cosa venga fatta dai politici avversari perché considerati incapaci, interessati, corrotti e asserviti alle multinazionali o ai poteri stranieri; e così via.

Nel frattempo, il dibattito è sempre meno attento alle opportunità che i media digitali hanno aperto e possono sviluppare. E comunque è più concentrato sull’analisi dell’esistente e poco sulle possibilità di alternative migliori. Le accuse incrociate si sprecano. Le dietrologie più fantasiose abbondano. Il discernimento risulta sempre più difficile.

Ci vuole pazienza. Proprio quello che manca in questo dibattito. Ci vuole impegno e pazienza perché il sistema da riformare è complesso. Se si muove un elemento si possono ottenere magari le conseguenze dirette volute ma indirettamente si può generare un effetto indesiderato. E di fronte a questa realtà il dibattito diventa difficilissimo da seguire. Vediamo qualche esempio. Meta sta pensando di estendere la crittografia totale che caratterizza Whatsapp anche a Instagram. Questo sembrerebbe un grande passo avanti per la privacy. Ma Fbi, Interpol e la National Crime Agency del Regno Unito protestano: questa estensione della crittografia renderebbe molto più difficile proteggere i minori dalle violenze sessuali.

In generale, i critici sostengono che aumentando in questo modo la privacy si avrebbe una minore sicurezza. Diversi Governi occidentali se la prendono con TikTok.

Le accuse sono diverse. È vista come una macchina della raccolta di dati per la Cina. È considerata una tecnologia che crea dipendenza e fa male ai giovani. Incentiva comportamenti pericolosi, lasciando che si organizzino challenge che mettono in pericolo la vita stessa dei partecipanti. E per questo va chiusa. Oppure separata in Occidente dalla casa madre cinese.

Ma queste scelte favorevoli alla sicurezza sarebbero una forma di censura, secondo Alexandria Ocasio-Cortez, negli Stati Uniti, e Matteo Salvini, in Italia, che si accordano inopinatamente intorno a questo problema. E la lotta alla censura sarebbe stato l’intendimento di Elon Musk nel prendere Twitter.

Un’intenzione velocemente dimenticata per lasciare spazio a forme di monetizzazione che senza censurare, valorizzano gli utenti che pagano. Del resto, Musk si è distinto per avere innovato tanto, anche la coerenza: ha firmato la lettera che chiedeva una moratoria di sei mesi sullo sviluppo di nuove versioni di intelligenza artificiale generativa perché troppo pericolosa per l’umanità, ma poco prima aveva licenziato tutti i dipendenti di Twitter che si occupavano di etica dell’intelligenza artificiale e poco dopo ha lanciato una sua startup per fare una nuova intelligenza artificiale generativa e fare concorrenza a quelli che voleva fermare per sei mesi.

Intanto, la privacy diventa il punto di partenza di una indagine su ChatGPT del Garante per la protezione dei dati personali italiano che poi si traduce in un blocco della piattaforma sul territorio italiano e sfocia nelle proteste di tutti coloro che leggono la decisione come un attentato all’innovazione tecnologica. Insomma, qualsiasi riforma ha conseguenze dirette e indirette in un mondo complesso e articolato come l’ecosistema digitale. Occorre cominciare con una bella discussione sugli obiettivi condivisi. Perché altrimenti ci si perde in una commedia degli equivoci, con protagonisti come Elon Musk.

Mentre sono ancora in discussione le conseguenze delle intelligenze artificiali generative, ormai si sa molto bene che cosa generano i media sociali basati sulla pubblicità, sugli algoritmi di raccomandazione, sull’obiettivo di tenere gli utenti incollati alla tecnologia: hanno accentuato le divisioni di società già divise e conflittuali; hanno parcellizzato l’opposizione al sistema dominante, anche disperdendola in discussioni laterali sulle sensibilità più diverse; hanno radicalizzato le opinioni più radicali.

Quello che si nota di meno è che hanno di fatto censurato il lavoro di ricerca serio, hanno zittito le persone moderate e le vittime di violenza, hanno alimentato l’errore di valutare le notizie non per il metodo con il quale sono raccolte ma per le caratteristiche di chi le racconta, confondendo ogni fatto in un’opinione. Hanno moltiplicato i troll che si oppongono alle idee altrui solo per cercare traffico. Hanno alimentato la confusione tra le persone e i personaggi. Hanno gettato nel cestino del computer il valore dell’autenticità.

I media digitali più popolari, per le loro interfacce, per i loro modelli di business, per i valori che hanno diffuso, hanno generato un’ipertrofia della banalità affrettata e violenta, che ha di fatto ridotto lo spazio di una parte essenziale della cultura: quella di chi studia davvero, di chi si impegna per il bene comune e cerca un accordo su ciò che si può fare. E tutto questo con un solo scopo, non politico ma finanziario: costruire giganti economici che a questo punto hanno di fatto una responsabilità politica enorme.

Difendere questi mezzi di comunicazione è obbligatorio, chiuderli è ridicolo, dividere le aziende che li gestiscono per diminuirne l’enorme potere è forse inevitabile. Come dice, Sarah Myers West sul Financial Times, un tempo era Mark Zuckerberg a credere nel motto move fast and break things up: ora sono i regolatori che lo devono adottare. Ma solo se c’è una strategia per creare alternative e superare questa fase confusa, adolescenziale, dei media digitali. Con un obiettivo: valorizzare la qualità della conoscenza, l’impegno per ricercarla e comprenderla, incentivare l’ascolto e l’incontro. Se questi valori sono censurati, allora non ci si stupisca che qualcuno vuole censurare anche i censori. Ma si aprirebbe una spirale senza senso, senza costrutto e senza via d’uscita democratica.

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