Culture

Gaia Tortora e il dovere di ricordare

Nel libro-memoir Testa alta, e avanti, la figlia del celebre giornalista tv ricorda la gogna giudiziaria e mediatica subita dal padre Enzo. E come la sua vita familiare deragliò per sempre
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24 aprile 2023 Aggiornato alle 21:00

Se Gaia Tortora sapesse, ma forse già lo sa, che il ricordo di suo padre è così tanto, ma così tanto impresso nella memoria familiare di milioni di famiglie che nei primi Ottanta sedevano davanti a un unico televisore magari ancora in bianco e nero, e guardavano quel pappagallo musone che non parlava mai a cui tutti urlavano “Portobello!” (e quante volte ci abbiamo provato anche noi bambini, che col pensiero magico magari davvero poteva succedere) e il volto di quel presentatore lì dalla nostra testa non se n’è andato mai e poi mai, non è riuscito a scindersi dal ricordo delle nostre serate in casa quando davvero c’era ben poco da fare e si stava tutti lì davanti a Enzo Tortora che era un adulto serio, elegante, educato. Uno importante della tv che assomigliava anche un po’ ai nostri papà.

Se Gaia Tortora sapesse, ma secondo me lo sa già, che per noi, per quella generazione lì che poi è anche la sua, quel padre tanto amato e vittima d’una Ingiustizia giuridica, mediatica, umana, non è l’uomo ammanettato a favore di fotografi che la mattina del 17 giugno 1983 - il giorno dell’esame di terza media della figlia minore - viene condotto in carcere perché inchiodato da testimonianze di camorristi false e calunniose, non è il giornalista vittima di una malagiustizia che credeva più ai pentiti che agli uomini onesti, non è il padre minato nella salute che scrive lettere dolcissime alla figlia in carcere, l’eurodeputato che rinuncia all’immunità per difendersi contro una vicenda kafkiana.

Nella memoria collettiva di chi è oggi intorno ai 50, Enzo Tortora è un uomo perbene. Uno di famiglia. Un ricordo di divani di velluto verdi, televisori con grandi manopole, grembiuli bianchi di scuola, i quiz che ci divertivano davvero, mamma con una retina verde vaporosa per tenere fermi i bigodini. Tortora era a casa. Era casa.

Bastasse questo a ridare un po’ di ossigeno alle memorie personali che la figlia Gaia ha racchiuso nell’intenso libro Testa alta, e avanti (Mondadori) sarebbe già una piccola consolazione collettiva. Ma se l’eco della vicenda umana e giudiziaria del padre si è dissolta e confusa con le tante storie oscure del nostro Paese, per la famiglia quei processi, quelle ferite bruciano ancora molto forte. E oggi lasciano il posto al ricordo doloroso, alla riabilitazione personale dell’uomo, alla rielaborazione di chi di quella famiglia è rimasto e ora ha la forza di raccontare.

La mattina dell’arresto Gaia Tortora si prepara a sostenere l’esame di terza media. La sua vita spensierata si ferma per sempre lì. Da quel momento lei, la sorella Silvia, la mamma Miranda saranno unite e ferme a sostenere la battaglia del padre. Insieme a loro, amici fraterni come Piero Angela, e tanti nemici nemmeno troppo nascosti, compreso un Paese spaccato a metà tra innocentisti e colpevolisti, tra chi amava Tortora e chi da sempre lo detestava. Scrive Gaia: «Ho impiegato anni ad accettare che questa vicenda fosse successa a me. Siamo inestricabili, io e lei. Ho scoperto da piccola che lunico modo per sopravvivere era proteggersi sotto strati e strati di scorza dura, come se nulla potesse scalfirmi. Nessuna fragilità, nessuna vulnerabilità».

Invece la ragazza è forte solo in apparenza. L’adolescenza si presenta puntuale con le sue difficoltà: la scuola che non va, la ribellione, i disturbi alimentari, le frizioni con la mamma, tutto mentre papà è assente: prima è sempre al lavoro in tv o in giro per l’Italia, poi in carcere o agli arresti domiciliari, poi in ospedale dove muore a 59 anni, da uomo libero e innocente ma logorato per sempre dalla sua vicenda.

Senza papà la battaglia personale di Gaia va avanti: cerca consolazione sui lettini degli analisti, nella religione buddista, nella musicoterapia, nell’arteterapia, nel lavoro da brava giornalista tv che però - come confessa in queste pagine - al pensiero della diretta va in crisi di panico. Gaia prova a riunirsi col suo doppio: la ragazza forte che tiene la testa alta davanti ai fotografi e la donna fragile che va in cerca di una sua strada. Un lavoro costante, che continua ancora oggi nonostante il dolore si ripresenti puntuale ogni volta che il nome di suo padre riemerge a sproposito. «Allora l’organo-dolore si risveglia. - scrive - Il male che sento è identico a quello di allora. Immagino che sia inevitabile: il centesimo taglio, in fondo, non duole meno del primo».

Il 15 settembre 1986, a 1.185 giorni dall’inizio del suo calvario, i giudici assolvono Tortora con formula piena, e con lui 113 dei 191 imputati, riconoscendo linattendibilità dei pentiti. Una ulteriore conferma arriva in Cassazione nel 1987. Nello stesso anno fa ritorno in tv alla guida di Portobello con la famosa frase: «Dunque, dove eravamo rimasti?». Muore un anno dopo, e sceglie di farsi seppellire con i suoi celebri occhialini d’oro e con una copia della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni.

Ancora oggi, ricorda l’autrice in un capitolo del libro dedicato alle vittime di malagiustizia, in Italia ogni anno 7 persone sono giudicate colpevoli quando non lo sono e mille innocenti vengono ingiustamente sottoposti alla misura di custodia cautelare. Sono circa 3 al giorno.

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