Diritti

La diet culture non dovrebbe definirci, mai

«Devi dimagrire» è una frase che mi sono sentita dire, tempo fa. Questo perché viviamo in una società che esalta la magrezza, che paragona i corpi al nostro valore. Cambiamo le cose: partiamo dalle parole
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9 aprile 2023 Aggiornato alle 11:00

Avevo circa 18 anni, il tennis era già il mio lavoro. Venivo da un periodo e da risultati molto promettenti per la mia carriera futura. Gli allenamenti erano sempre lunghi e intensi: più di 7 ore al giorno tra preparazione fisica e sul campo. L’educazione di quei tempi, purtroppo, non era basata sulla qualità ma sul fare sempre di più.

In parte l’esperienza di oggi nell’allenare le persone arriva anche da questo periodo della mia vita. Ho imparato che non dovrebbe mai funzionare in questo modo. Ho imparato che fare tanto non corrisponde a migliorare e neppure a ottenere i risultati sperati.

Perché negli anni sono arrivata a questa consapevolezza? Esperienze come l’infortunio di quel periodo, mi hanno segnata. Sono stata ferma 9 mesi prima di rientrare in campo. Alcuni medici mi volevano convincere a ogni costo che non avrei mai più preso la racchetta in mano ma io, da brava bergamasca, ho utilizzato una delle poche qualità legate alla mia provenienza: la grinta.

Non volevo mollare e così ho fatto: dopo mesi di dolori lancinanti, terapie fallite miseramente e poi meglio riuscite, pian piano ho incominciato a muovermi. Ho fatto più di 6 mesi nell’immobilità totale. Camminare mi creava dolori fortissimi, rimanere seduta forse peggio e sdraiata non cambiava più di tanto la situazione.

Ricominciai a tenere in mano la racchetta dopo quasi 1 anno. Chi ero? Un’altra persona, interiormente ma soprattutto fisicamente.

Ero aumentata di circa 12 chili, ero irriconoscibile. Il mio corpo da atletico si era trasformato in un corpo da ragazza sovrappeso. Ho sempre pensato che per sostenere un atleta, soprattutto se giovanissimo, nel suo percorso ci volesse tanta delicatezza e sensibilità. Il talento per esprimersi ha bisogno di libertà. Delicatezza e sensibilità solo la condizione essenziale per poter esprimere sé stessi.

Ebbene, eccomi nel mio nuovo team d’allenamento: ovviamente avevo lasciato quello precedente, ringraziando per avermi quasi ridotta sulla sedia a rotelle all’età di 18 anni.

Il primo giorno non lo dimenticherò mai: felice del mio nuovo inizio ero positiva, la situazione doveva sicuramente migliorare. Finalmente potevo tornare alla mia vita, iniziavo a intravedere la possibilità di ricominciare a gareggiare.

E poi arriva lui, il medico sportivo che mi avrebbe dovuto visitare. Era la prima volta che mi vedeva… Mi sentivo un po’ come carne da macello, in attesa di capire se potessi essere venduta a buon prezzo, se ero un pezzo pregiato o qualcosa da scartare.

Mi si avvicina sicuro e fiero, con la consapevolezza di un gorilla della foresta mi dice: «Sei tu l’atleta? Ma cosa ti è successo?». Come se non bastasse, ha ritenuto di dover essere più chiaro, sottolineando con linguaggio poetico: «Sei grassa, devi dimagrire e anche tanto!»

Hai mai sentito parlare del fenomeno della “diet culture”? Non tutti lo conoscono. La diet culture (o cultura della dieta se vogliamo italianizzarla) rappresenta un insieme di ideologie che sono riuscite a instaurarsi profondamente nelle nostre menti e a influenzare la nostra vita quotidiana.

La diet culture è un insieme di credenze e di valori che pongono l’attenzione su degli atteggiamenti e degli stili di vita definiti “salutari”, e su quelli che invece non lo sono. In particolare, esalta ed esorta a quell’ideale di “magrezza, associandolo a un concetto di salute (assolutamente non corretto) e ponendolo come obiettivo da raggiungere in ogni caso e in ogni situazione. Queste credenze sono spesso riferite al sesso femminile.

La perdita di peso è vista come un qualcosa di assolutamente necessario per rientrare nei canoni estetici imposti dalla società, che molto spesso coincidono con un’estrema magrezza non sana.

Nella cultura della dieta vengono spesso utilizzati termini come “fit” e “fat”, o come “buoni” e “cattivi”, per riferirsi ad alimenti o abitudini; viene assegnato un valore morale a come si mangia e alle dimensioni e forme del proprio corpo, senza mezzi termini. Chi non è all’altezza deve impegnarsi per poter raggiungere gli obiettivi imposti da questa cultura.

Gli effetti di questa corrente di pensiero influenzano le nostre abitudini e il nostro stile di vita. Quello che è accaduto a me è uno dei tanti meccanismi negativi innescati dalle modalità di pensiero della cultura della dieta: se mangio più del solito mi sento inadeguato/a e scatta il senso di colpa.

La cultura della dieta spinge a utilizzare l’alimentazione come mezzo per definire chi sei e quanto vali. La mia esperienza può essere considerata meno “grave” per il contesto sportivo da professionista in cui ero inserita, ma non per questo meno drammatica.

L’insinuarsi del senso di colpa è il primo segnale a indicarci che qualcosa non funziona. La presenza assillante nelle nostre vite di un giudizio costante ci ha portato a credere che esistano alimenti “buoni” e “cattivi”. Abbiamo creato una tendenza a demonizzare alcuni gruppi nutrizionali, come a esempio grassi o carboidrati. È un imprinting sociale rispetto a tutti i concetti che ruotano attorno alla diet culture, a cui siamo sottoposti quotidianamente.

La terminologia è di nuovo molto importante. Le parole come “fit” oppure “sgarro” alimentano un concetto di alimentazione basato sulla rinuncia, non sulla scelta e sull’equilibrio.

Sono estremamente convinta che rapportarsi all’alimentazione in questo modo, con un linguaggio punitivo e caratterizzato da divieti o rinunce, oltre a non essere funzionale, è anche profondamente dannoso per la nostra salute fisica e mentale.

I professionisti oltre a fare diagnosi e dare cure, dovrebbero avvicinarsi a una cultura più inclusiva in cui ogni essere umano merita il giusto rispetto, indipendentemente dal peso o dal corpo che indossano.

Credo sempre più che un linguaggio etico sia il futuro. Siamo cresciuti con un analfabetismo emotivo che ci ha portato a credere nella violenza come forma educativa e comunicativa.

Ci meritiamo di più, meritiamo il meglio. Noi creeremo insieme uno spazio protetto al quale attingere e rivolgersi quando chiunque, in un momento qualunque della nostra vita, non saprà considerarci essere umani unici e speciali.

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