Bambini

Quelle urla nelle classi dei bambini

Rimproveri e castighi nelle aule a volte sono la regola. Ma qual è il confine tra abuso di correzione e richiamo alle regole?
Credit: Max Fischer
Tempo di lettura 5 min lettura
1 aprile 2023 Aggiornato alle 06:30

Cosa fa di un insegnante un cattivo maestro, di un bambino un pessimo studente, di un genitore un mediocre educatore? C’è una zona d’ombra tra queste 3 figure dell’universo scuola che si fatica persino a nominare perché comunque osi dire potresti sbagliare. E così, nel dubbio, tutti tacciono.

Premessa: ho un profilo da allieva remissiva cresciuta nel culto dell’istituzione scolastica, rigorosamente pubblica. Da genitore, lo schema è rimasto invariato ma lo spirito critico verso alcune storture del sistema si è affinato. Ne subisco pregi e difetti grazie a una attivissima chat di genitori che mi ricorda regolarmente che si danno troppi compiti, che domani c’è uno sciopero, che la mensa fa schifo e sai la novità.

Ma qui l’argomento è un altro e devo trovare il tono gusto. Ci provo.

Cosa succede nelle classi dei nostri bambini? In quale mondo entrano dal momento in cui li lasciamo fino a quando li andiamo a riprendere? Li crediamo tranquilli perché un registro elettronico ci informa ora dopo ora se fanno matematica o scienze motorie, e sempre se la mensa fa schifo. I più fortunati scorrono voti eccelsi, altri si dannano per quelli rosso fuoco, se l’opzione “note” tace puoi sperare che tuo figlio non abbia combinato nulla. Per stavolta.

Eppure, lì dentro, qualcosa succede sempre. E qui arrivo al punto.

Anni fa, da ritardataria cronica, ho avuto il privilegio di sentire quasi ogni giorno il vociare nelle classi dell’asilo di mio figlio, quando le porte erano ormai chiuse. Mentre mi attardavo a sfilargli le scarpe in un salone ormai vuoto, io sentivo. Da un’aula in fondo al corridoio, io sentivo che lei urlava. Tanto, forte. Sempre.

10 anni dopo, ho saputo che era ancora lì, in quella classe. A urlare tanto, forte. Sempre.

Eccoci alla zona d’ombra. Quando si può dire che un insegnante alzi un po’ troppo la voce? Che il suo rimprovero stizzito, nervoso, che supera la barriera di una porta oltrepassi la soglia tra un tono severo ma accettabile e un eccesso di potere? Quando mette in atto una evidente situazione di squilibrio, quando è un abuso di correzione, quando è violenza?

Quello che colpiva, in quell’asilo, erano sì le sfuriate regolari su bambini di 3-4-5 anni, ma c’era anche il silenzio assordante della comunità scolastica che, come me, non poteva non sapere né non sentire. Eppure, nessuno si scomponeva.

Sappiamo bene che anche dopo, dalla primaria alle superiori, una certa dose di perdita di pazienza e irritabilità tra alcuni docenti viene accettata e ritenuta quasi fisiologica per tenere a “bada” le classi e riportare l’ordine. Come fosse un necessario compromesso tra autoritarismo e autorevolezza che in fondo tutti, da studenti, abbiamo subito e tacitato da sempre.

Eppure se sei un insegnante e la tua faccia arriva a un centimetro da quella di un allievo mentre gli urli di stare zitto, qualcosa non va. Se lo strattoni per tornare al suo posto qualcosa non va. Se spegni le sue grida di bambino o di ragazzo con altre grida di adulto, se lo minacci con note disciplinari invece di ascoltare le sue ragioni, qualcosa non va. E lui il linguaggio del rispetto da te non lo imparerà.

Quando a casa arriva il racconto di un rimprovero, la mia domanda è: e tu cosa hai combinato per essere stato sgridato? Sono bravissima a girare la questione. Sposto il fuoco sul bambino, lo responsabilizzo sui suoi comportamenti sbagliati, prendo le parti dell’adulto, faccio corpo con la scuola. Sono proprio brava eh. Però dentro mugugno e ribollo.

E poi vado a cercare. Il burnout tra gli insegnanti inizia a essere solo ora materia di indagine e di progetti nelle scuole per far sì che venga colto in tempo (qui te ne linko uno tra tanti), prima che si manifesti non solo come problema di salute per il docente, di lavoro per il dirigente, ma soprattutto di rischio per gli studenti.

La cura della salute mentale è un tema emergente, importante, negli uffici così come nelle scuole, tra i ragazzi così come tra gli educatori. A tutti i livelli.

Ti potrei annoiare con un sacco di dati, indagini, disciplinari, ma il tema è scivoloso e lastricato di obiezioni. Si dirà: i bambini di oggi sono ingestibili, irrispettosi, spenti, bolliti dalla tecnologia, spalleggiati da genitori avvocati, diabolici, fragili, infantili. Prova tu a tenere una classe così, altro che abuso di mezzi di correzione e di disciplina (punito però dal codice penale, art. 571).

Si dirà che non mancano gli episodi di violenza vera dentro le scuole ai danni di professori, e purtroppo la cronaca li riporta puntualmente (come accaduto questa settimana nella scuola elementare di Nashville, in America). È diventato un mestiere rischioso, stressante, precario, mal retribuito, ingrato. Figurati nelle scuole di frontiera, poi, dove insegnare è missione e questi discorsi sembrano aria fritta, bazzecole, e le regole per forza saltano e devi usare il pugno di ferro.

E poi si aggiungerà: a scuola ci arrivano così perché a casa sono fuori controllo, bisogna sempre sopperire a bisogni speciali e problemi di ogni tipo, abbiamo pochi mezzi. L’educazione inizia dalla famiglia, verissimo, ma deve essere un patto di alleanza con la comunità.

Impegniamoci sul serio a fare rete insieme, a silenziare le chat che mettono becco riguardo qualsiasi questione didattica. A trattare con rispetto figli, genitori, studenti e docenti. A non tacere di fronte ai piccoli grandi abusi.

A non ritenere normali modelli educativi distorti ed equivoci. Ad ammettere di fare fatica a casa, sul lavoro, dentro un’azienda ma anche in un’aula che ribolle di vita futura. A non nasconderci, tutti, dietro una porta chiusa di una classe.

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