Ambiente

Upcycling: il riutilizzo ti rende alla moda

L’industria del fashion inquina troppo, fino al 10% delle emissioni globali di CO2. Una soluzione? Il processo creativo che permette di ricondizionare capi in disuso
Credit: Instagram.com/@nicolemclaughlin
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28 marzo 2023 Aggiornato alle 09:00

L’industria della moda inquina. E anche tanto.

Il 60% di tutti gli abiti che utilizziamo a livello globale sono realizzati con poliestere, un materiale sintetico ottenuto con combustibili fossili e le cui fibre altro non sono che micro plastiche: tonnellate di queste fibre finiscono ogni anno in mare. Questo significa che, continuando in questa direzione, entro il 2050 nelle acque del pianeta ci saranno più plastiche che pesci.

Ancora, il settore del fashion partecipa per il 20% allo spreco idrico globale e è responsabile del 10% delle emissioni totali di CO2 a causa delle lunghe catene di approvvigionamento e della produzione ad alta intensità energetica.

Se questi dati non ti hanno ancora portato a riflettere, fermati a pensare a qualcosa di più concreto e tangibile: per realizzare un solo paio di jeans, sono necessari circa 10.000 litri di acqua, la stessa quantità che un essere umano beve in un lasso di tempo pari a 10 anni!

Prova a moltiplicare tutto questo per le milioni di tonnellate di jeans prodotte ogni giorno nel mondo e poi rifletti ancora. La cifra indica la quantità di acqua che sfruttiamo quotidianamente per produrre un unico capo di abbigliamento. E probabilmente ti sarai accorto che è persino troppo difficile da leggere, e anche immaginare.

Cos’altro serve per affermare con certezza che quello della moda è un settore industriale che ha un forte impatto ambientale e che è in grado di colpire su più fronti diversi contemporaneamente?

In un’ottica fast, di una moda veloce, che è arrivata a produrre 52 collezioni l’anno contro le 2 collezioni tradizionali (primavera/estate e autunno/inverno), siamo arrivati nell’era degli abiti usa e getta, quelli sì di scarsa qualità, ma anche con un prezzo così basso da non farci pensare su due volte quando decidiamo di buttarli via e acquistarne nuovi.

E intanto il deserto di Atacama, in Cile, è stato trasformato in una discarica di vestiti usati, mentre nelle fabbriche i lavoratori producono senza sosta e senza diritti.

È chiaro, ormai, che stiamo andando incontro a un’autodistruzione e per evitare lo scenario peggiore si rende necessario un cambio di rotta immediato, una sterzata repentina verso quella che i professionisti del settore chiamano economia circolare e che, per la moda, oggi si fonda su due pilastri: quello del recycling e quello dell’upcycling.

Si tratta di 2 termini molto simili tra loro, ma che hanno a che vedere con due processi diversi che, tuttavia, condividono un unico obiettivo: portare la sostenibilità – quella vera, non di facciata - nel settore della moda.

In particolare, il termine recycling indica un percorso di riciclo di un capo d’abbigliamento, in cui i singoli pezzi e materiali che lo compongono vengono smantellati, smistati e lavorati per creare qualcosa di nuovo, identico, simile o diverso dall’oggetto originario. È il caso delle fibre rigenerate, per esempio, che provengono da vecchi abiti e che, dopo un processo di lavorazione in fabbrica, possono essere utilizzate per produrre nuovi capi.

Quando parliamo di upcycling, invece, ci riferiamo a una vera e propria pratica creativa in cui un indumento che ha terminato il suo ciclo di vita come tale, viene trasformato in qualcos’altro senza dover rilavorare i materiali che lo compongono, in un ottica di riutilizzo sostenibile. È il caso, per esempio, di vecchi jeans tagliati e rielaborati per diventare una gonna.

L’upcycling ha un impatto ambientale quasi azzerato: non solo non produce emissioni di gas serra, ma riduce la quantità di rifiuti e indumenti gettati e frena significativamente la richiesta di nuovi capi d’abbigliamento da produrre, bloccando la catena inquinante dell’industria.

Saranno allora questi i motivi, insieme alla consapevolezza maturata di un’azione urgente e a un’attenzione sempre maggiore delle giovani generazioni (ma non solo) al tema ambientale, per cui sono decine le start up emergenti che hanno come modello di business proprio il recupero di capi di moda e lə giovani artistə che di questo modello ne hanno fatto una passione da condividere sui social.

Alessandra Alfieri, per esempio, ha creato il brand Helps Nature, un brand etico ispirato alla natura con cui realizza capi per bambini recuperando tessuti di pregio con una tecnica di patchwork creativo o utilizzando materiali sostenibili e organici che non danneggiano il pianeta.

Margherita Caccavella, invece, ha lanciato lo studio di sviluppo Maia che lavora con artigiani, produttori e grossisti italiani per sviluppare e produrre capi d’abbigliamento in maglia, tessuti, jersey e accessori in pelle sostenibili.

Su Instagram, poi, spopolano le creazioni di Nicole McLaughlin - una designer americana che trasforma oggetti di uso quotidiano in capi streetwear – o di Tega Akinola - una stilista che ha avuto l’illuminazione nei mesi di lockdown ed ha creato borse a partire da vecchie felpe e décolleté a punta utilizzando calzini Nike ormai lasciati da troppo tempo in fondo al cassetto - o, ancora, dell’italiana Gloria Schito, fashion creator da sempre sensibile al tema della sostenibilità, convinta sostenitrice degli outfit sostenibili nel metaverso e stilista, sulla piattaforma di Meta, impegnata nella diffusione dell’upcycling attraverso video di creazioni inventate da lei a partire da capi conservati nell’armadio, ma mai utilizzati.

Si tratta, purtroppo, di poche voci fuori dal coro che, insieme, ancora non riescono a far arrivare il loro messaggio a quel pubblico vasto e sordo che continua ad acquistare per gettare. Così, i grandi colossi del fast fashion lavorano senza sosta e il Pianeta inizia a dare i primi segni di cedimento in un countdown che segna il punto di non ritorno.

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