Futuro

Degli algoritmi sul lavoro e di altri demoni

Gli algoritmi oggi governano completamente la nostra esistenza, influenzandoci negli acquisti o nella scelta dei tragitti da fare in auto. Ma cosa succede quando anche nel mondo del lavoro prendono il sopravvento?
Credit: Niklas Liniger
Tempo di lettura 5 min lettura
26 marzo 2023 Aggiornato alle 06:30

Diciamoci la verità e facciamolo tutto d’un fiato perché è una di quelle verità che potrebbe non piacerci: gli algoritmi di intelligenza artificiale controllano sempre di più le nostre vite o, meglio, ne consegnano il controllo ai loro padroni.

Sono gli algoritmi, ormai, che decidono cosa leggiamo online, cosa guardiamo in televisione, che musica ascoltiamo e sono, sempre più di frequente loro che scelgono anche cosa compriamo, rendendoci destinatari di alcune pubblicità e non di altre, di alcune offerte commerciali e non di altre e proponendoci, nelle piattaforme e-commerce, prezzi diversi a seconda della nostra propensione all’acquisto di questo o quel prodotto.

E, più banalmente, ormai, sono gli algoritmi anche a dirci che strada facciamo in auto, dove andiamo in vacanza, dove dormiamo in hotel e dove mangiamo a cena. Ci sono, persino, algoritmi che ormai decidono – o almeno ci provano – per noi chi è la nostra anima gemella nei siti di dating online.

Ovviamente senza voler parlare, perché il discorso sarebbe lungo, della più celebre delle intelligenze artificiali del momento, ChatGPT, che si sta trasformando nel più potente strumento di manipolazione di massa della coscienza collettiva e dell’opinione pubblica di tutti i tempi rispondendo sostanzialmente allo stesso modo, alle stesse domande che gli vengono proposte da centinaia di milioni – destinati a diventare presto miliardi – di persone, e producendo una quantità di contenuti probabilmente già oggi superiore rispetto a quella prodotta sin qui dall’umanità intera o, comunque, destinata a infrangere presto questa frontiera.

Insomma che ci piaccia o no conviviamo con gli algoritmi e ne siamo controllati più di quanto la maggior parte di noi immagini. Anche quando ci sembra di decidere autonomamente, la realtà il più delle volte è che la scelta è tecno-orientata.

Non ce ne siamo accorti perché, forse, fino a oggi siamo stati qui ad aspettare che le intelligenze artificiali scendessero sulla terra con sembianze marziane e dentro i dischi volanti che si vedono nei film di fantascienza.

Ma, mentre noi stiamo ancora cercando di varare regole capaci di governare il fenomeno dell’intelligenza artificiale del quale i più parlano ancora al futuro, quello che doveva accadere è accaduto e siamo entrati nella società degli algoritmi e dell’algocrazia, nella quale loro comandano e noi eseguiamo.

Con loro, naturalmente, si intende i padroni, pochi e più o meno sempre gli stessi.

È in questo contesto che deve essere letta la sentenza con la quale il Tribunale di Padova, nelle scorse settimane, ha messo nero su bianco che la società titolare del marchio Despar deve assumere 15 persone, apparentemente alle dipendenze di un appaltatore terzo, ma in realtà, tecno-governati da un proprio algoritmo.

La sentenza in questione – non la prima, per la verità, a conclamare che gli algoritmi possono essere i più duri dei caporali sul luogo di lavoro – fa suonare la sveglia e accende, una volta di più, un faro su quello che sta succedendo e che succederà nel mondo occupazionale, se gli obiettivi di produttività ed efficienza da sempre cari al datore di lavoro sono perseguiti attraverso il ricorso a intelligenze artificiali guidate da algoritmi.

La decisione si limita a fissare un principio pure indubbiamente importante e cioè che se una società utilizza un software per controllare passo passo l’attività lavorativa svolta da una o più persone, poco conta da chi queste persone appaiano dipendere, il vero datore di lavoro è chi le controlla, controllando l’algoritmo.

Non poco e non male perché sbugiarda, con un colpo solo, decine di migliaia di datori di lavoro che, negli ultimi anni, pur di non assumere centinaia di migliaia di persone si sono fatti scudo di questo genere di soluzioni e hanno lasciato che a dare istruzioni, direttive e indicazioni, al posto loro, fossero meccanismi più o meno evoluti di intelligenza artificiale.

Ma, al tempo stesso, la sentenza tratteggia anche uno scenario nel quale, ormai, gli algoritmi sono entrati nel luogo di lavoro e se non saremo capaci di governarli in maniera tempestiva ed efficace, smantelleranno conquiste di dignità e civiltà ultracentenarie, riducendo le persone – come ha già scritto bene il sociologo Antonio Casilli – a “schiavi del click” attraverso un processo di progressivo appiattimento della gestione del personale in una dimensione esclusivamente efficientista e permettendo il ri-amplificarsi di intollerabili discriminazioni tra lavoratori.

Non è facile governare algoritmi che ormai ci governano ma è una sfida che non possiamo perdere perché la posta in gioco, in una parola, è la nostra umanità.

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