Diritti

La parità di genere arriva nei testi giuridici (più o meno)

Sì alle professioni al femminile; niente schwa e articoli prima dei cognomi. E il maschile universale? L’Accademia della Crusca fa chiarezza riguardo il linguaggio inclusivo e rispettoso
Credit: cottonbro studio
Valeria Pantani
Valeria Pantani giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
21 marzo 2023 Aggiornato alle 12:00

Essere inclusivə con le parole non è sempre facile. Spesso, quando parliamo, per far prima utilizziamo la desinenza al maschile anche quando nel nostro gruppo di interlocutori (e interlocutrici) ci sono molte donne. Oppure, per le professioni facciamo riferimento solo alla loro versione maschile, perché si sa: alcuni lavori sono solo per uomini. Ma come possiamo essere una società inclusiva e paritaria se non chiamiamo le cose con il giusto nome?

Anche l’Accademia della Crusca si è interrogata, o meglio: è stata interrogata. Infatti, qualche giorno fa ha pubblicato una sorta di “spiegone” del linguaggio di genere nella scrittura degli atti giudiziari per rispondere a una domanda del Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione relativa al tema della “scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari”.

Ma prima di tutto, una premessa. L’Accademia chiarisce infatti che “A chi opera nel settore del diritto e dell’amministrazione della giustizia (…) è oggi richiesto di scrivere in modo chiaro e sintetico, secondo regole che da tempo sono state indicate, per le quali è necessario un addestramento attento e continuo che ne renda naturale e automatico il rispetto”.

In particolare, secondo l’Istituzione, il rispetto della parità di genere linguistica passa attraverso l’eliminazione del maschile universale e dell’articolo prima dei cognomi femminili, la scelta del genere degli aggettivi in base ai nomi che sono in maggioranza o più vicini all’aggettivo stesso e l’utilizzo del femminile per le professioni. Quindi, in altre parole, non più solo “avvocato” ma “avvocata”; basta dire “la Meloni” o “la von der Leyen” e sì alle frasi “Gli attivisti e le attiviste lottano unite per il clima”.

Come spiega l’Accademia, “Alla base di questi assiomi sta il principio base, che consiste nella volontà di rompere qualunque eventuale asimmetria che distingua il riferimento ai due generi, maschile e femminile, intesa come discriminazione”. L’obiettivo è infatti quello di istituire la parità di genere nella lingua e ripulirla dai residui patriarcali, ma anche educare le future generazioni. Perché le parole condizionano i pensieri e il modo in cui le persone percepiscono la realtà.

“Alla luce di questa premessa”, la Crusca parte con una mini guida alla lingua paritaria negli atti giudiziari.

Viva le magistrate, avvocate e brigadiere

L’Accademia della Crusca invita tutti (e tutte), “senza esitazioni”, a utilizzare le forme femminili delle professioni, e non solo in ambito giuridico. E così, l’ingegnere diventa l’ingegnera, il prefetto la prefetta, il segretario generale la segretaria generale, mentre il medico si trasforma in medica e il capitano in capitana.

Ma cosa fare quando bisogna parlare di un gruppo di professionisti e professioniste nella stessa frase? Maschile universale sì o no? Per la Crusca è un nì.

L’Istituzione spiega infatti che, per evitare duplicazioni retoriche (“le lavoratrici e i lavoratori”, “i cittadini e le cittadine”), è possibile ricorrere al genere neutro (ma no, non lo schwa), per esempio scrivendo “le persone che lavorano”. Quando non è possibile, non piace o non si vuole creare una frase eccessivamente lunga, la Crusca dice sì al maschile universale ma solo se plurale, perché “inclusivo (a differenza del singolare)”.

Cosa ne pensa chi, con la lingua e le parole, ci lavora tutti i giorni? Secondo Vera Gheno (sociolinguista, traduttrice e divulgatrice), “Non è nulla di diverso da quello che l’AdC sostiene da tempo; dal canto mio, sono contenta che sia stata ribadiTa la correttezza dei femminili professionali”.

Tuttavia, l’esperta si dice “meno soddisfatta” per quanto riguarda una frase scritta dall’Accademia nella sua nota, ovvero “i principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale non vanno dunque sopravvalutati, perché sono in parte frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali”.

Articoli e cognomi? No grazie

“Oggi (l’utilizzo dell’articolo determinativo prima di un cognome, ndr) è considerato discriminatorio e offensivo non solo per il femminile, ma anche per il maschile - scrive l’Accademia, che ritiene però questa idea - scarsamente fondata”. Ma, per adeguarsi al “sentimento comune”, l’Istituzione dice no a cognomi e articoli insieme.

Come fare, però, per distinguere effettivamente un uomo da una donna quando non si conosce il sesso? In quel caso torna utile specificare la qualifica della persona (la Presidente del Consiglio, la Ministra) oppure il nome. Che, forse, rappresenta la soluzione più giusta e inclusiva, per tuttə.

Mettere al bando lo schwa

L’accademia la chiama “Esclusione dei segni eterodossi”.

La lingua è prima di tutto parlata, anzi il parlato gode di una priorità agli occhi di molti linguisti, e a esso la scrittura deve corrispondere il più possibile”: ed ecco spiegato il rifiuto dell’utilizzo dello schwa per indicare il genere neutro.

Inoltre, continua la Crusca, questa sintonia tra scrittura e parlato si è consolidata nel tempo e non può “essere infranta a piacere”. Quindi, nessun segno grafico che non possa essere tradotto a voce nell’ambito giuridico: nessuno schwa, asterisco, chiocciole (@), “u” o altri simboli (“introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati”) che indichino il genere neutro. Questa infatti, sottolinea l’Accademia, non è la sede adatta per “sperimentazioni innovative minoritarie”.

Piuttosto è preferibile utilizzare il maschile plurale non marcato, per esempio “I Ministri si sono riuniti oggi” (non è detto che nel gruppo non siano comprese anche Ministre), che rappresenta “un modo di includere e non di prevaricare”.

Questa decisione non stupisce Vera Gheno: lei stessa ha scritto che, “del resto, non caldeggio l’uso delle forme sperimentali in contesti ufficiali o amministrativi, come ho più volte ribadito. Ricordo, in ogni caso, che per quanto il parere dei membri dell’Accademia della Crusca possa essere scientificamente rilevante, non ha valore prescrittivo”.

Per l’Istituzione, la scelta del maschile non marcato al posto dello schwa o la scrittura di entrambi i generi ha anche un valore di utilità: sai quanti documenti ufficiali bisognerebbe cambiare? Primo fra tutti, la Costituzione.

Però le parole, quando parliamo, sì: magari quelle possiamo cambiarle, se stiamo attentə.

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