Storie

Donne caregiver: “Should I care or should I work?”

La ricerca ha analizzato l’impatto dell’aumento dell’età pensionabile per le lavoratrici di cura delle persone fragili in Uk. E come va in Italia e Ue? Ne parla Ludovico Carrino, autore dell’indagine, a La Svolta
Ludovico Carrino, ricercatore dell’Università di Trieste e del King’s College di Londra
Ludovico Carrino, ricercatore dell’Università di Trieste e del King’s College di Londra
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 9 min lettura
20 marzo 2023 Aggiornato alle 12:35

“Should I stay or should I go”, cantavano i Clash nella Londra del 1981. 40 anni dopo, un team di ricerca ha preso in prestito le parole della band punk rock inglese e le ha restituite in una forma che più si adatta ai temi alla base del loro studio, quello del tempo di cura, della condizione lavorativa delle donne e delle pensioni: Should I Care or Should I Work indaga l’impatto dell’aumento dell’età pensionabile delle donne per le attività di cura delle persone fragili, spesso a carico di figure femminili all’interno della famiglia.

La ricerca, condotta su dati britannici e pubblicata dal Journal of Policy Analysis and Management, è stata condotta da Ludovico Carrino, Vahé Nafilyan e Mauricio Avendano. Carrino, ricercatore dell’Università di Trieste e del King’s College London spiega a La Svolta quali siano le conseguenze di politiche pensionistiche che non tengono conto della realtà delle persone caregivers, ovvero delle figure (quasi sempre donne) che si prendono cura di un familiare non autosufficiente, senza avere riconoscimenti né tutele.

Lo studio è stato condotto nel Regno Unito: il Paese ha qualche similitudine con l’Italia?

In termini di cultura di assistenza informale, sì. Nella popolazione inglese la percentuale di persone che se ne occupa è molto simile a quella italiana: anche qui la spina dorsale dell’assistenza informale sono le donne; anche qui si tratta di una fetta di lavoratori adulti sopra i 50 anni. I problemi, in termini di disponibilità di assistenza formale, sono analoghi.

Siamo partiti dai dati di un’indagine statistica, Understanding Society - The UK Household Longitudinal, che viene condotta dal 2009 ogni anno nel Regno Unito, nell’Essex: raccoglie informazioni su un campione molto vasto di decine di migliaia di persone a cui vengono poste domande su varie dimensioni della loro vita, dal reddito al lavoro, dalla salute all’assistenza. L’esistenza di un’indagine con una così grande tradizione in Inghilterra è un punto importante per il Paese e ci permette di condurre questo tipo di indagini, cosa più complessa in Italia, per esempio.

Su cosa vi siete focalizzati?

Abbiamo voluto indagare in che modo il lavoro convive o confligge con le altre dimensioni della vita relative alla famiglia, in particolare con la decisione di dare assistenza informale. Che effetto ha lavorare più ore al giorno sulla decisione di dare assistenza a un partner o ad altre persone vulnerabili? Lavorare un’ora in più, che effetto ha sull’ammontare di tempo che io dedico al cosiddetto care?

Per rispondere a questa domanda non basta guardare i dati e confrontare le persone che lavorano più ore con quelle che ne lavorano meno e vedere come questi 2 gruppi si distinguono in termini di assistenza data. In Inghilterra c’è stata una riforma pensionistica che ha alzato l’età pensionabile delle sole donne a partire dal 2010 per un ammontare di anni notevole (da 60 anni a 65 a 66 anni). La riforma pensionistica spinge una persona media a lavorare più a lungo, a prescindere da tutte le sue altre caratteristiche, come la salute o la decisione di dare care o no. Quindi la decisione di lavorare di più non viene presa tenendo conto di tutto il resto.

Perché le riforme delle politiche pensionistiche fanno fatica a tenere conto di questo aspetto?

La riforma pensionistica ha come obiettivo primario quello di far lavorare le persone di più, il che teoreticamente ha degli effetti positivi sulle persone, perché lavorare tendenzialmente fa bene, ma ad alcune potrebbe fare l’effetto contrario. Noi cerchiamo di andare oltre questa visione “limitata” e tentiamo di seguire una filosofia più ampia nella definizione del benessere della persona, che dipende anche da altre dimensioni di vita. Lavorare di più potrebbe inficiarne alcune, e in questa ricerca andiamo a vedere l’effetto sull’uso del tempo. La politica di solito dimentica questi aspetti, li considera marginali e li ignora, perché si concentra sul lavoro. Noi cerchiamo di stimare cos’altro succede nella vita di chi lavora di più.

Ci sono dei mestieri e dei settori che sono più “colpiti” dall’assistenza informale?

La decisione di dare assistenza dipende da tante cose: sicuramente dal tempo a disposizione, ma anche dallo status socio economico della persona. Esistono alternative all’assistenza informale ma si pagano, e non tutti se lo possono permettere: solitamente lo status socio economico più basso rende più probabile che quella persona faccia il caregiver informale. Questo vale anche per chi riceve o meno assistenza, a seconda del suo status.

Il caregiver che è in uno status socio economico più basso, però, è anche più probabile che abbia un lavoro in media “peggiore”, ovvero più intensivo e meno flessibile, che è la classificazione peggiore possibile per un lavoro. Si chiamano High-strain jobs. È chiaro che per queste persone si crea un potenziale conflitto esplosivo. Dalla nostra ricerca è emerso che sono proprio queste persone a rinunciare a dedicare maggior tempo all’assistenza, quando devono lavorare di più.

Prevalentemente, si tratta di donne (il divario cambia da Paese a Paese, ma in media almeno il 60% o più è donna) che si trovano a lavorare più a lungo per via della riforma pensionistica, fanno mestieri più intensivi, pesanti e non flessibili, e riducono l’assistenza ai propri genitori. Sono quelle che più probabilmente devono dare assistenza perché non hanno molte altre risorse ed è molto probabile che provengano da famiglie non molto ricche.

Per loro il conflitto potrebbe diventare insostenibile. In alcune ricerche è emerso che a un certo punto queste persone dicono: «I have to give up something», ovvero: «Ho dovuto rinunciare a qualcosa». O al lavoro, o a dare assistenza. Non è così sorprendente, ma chi ha un lavoro più flessibile, magari lavora da casa, modifica l’orario, cambia la natura del suo lavoro, perché se lo può permettere. E così adatta anche il tempo per fare caregiving.

Ancora una volta emerge una questione di genere: le donne si ritrovano a subire le conseguenze peggiori delle politiche sociali. Da un lato vengono incentivate a prolungare le carriere ma dall’altro, se interrompono l’attività di cura, chi interviene a compensare questa mancanza?

L’ipotesi che tanti farebbero è che non succede niente all’anziano: la figlia fa meno ore di assistenza e qualcun altro la rimpiazza, o il mercato oppure il figlio, un amico, ecc. Ma, per ora, questo in media non accade. Le conseguenze sono 2: un rischio di bisogni non soddisfatti nella popolazione anziana, che può tradursi in ulteriori costi sociali, mentre da un punto di vista sociologico, viene messo nero su bianco il fatto che se non se ne occupa la donna, non se ne occupano altri.

Interviene una componente culturale molto importante, che fa sì che nel Regno Unito le donne si assumano quasi il 60% delle cure informali per parenti e amici per un valore stimato in 132 miliardi di sterline all’anno, poco al di sotto della spesa pubblica annuale per la salute: dare assistenza innanzitutto non è gratis. Bisogna investire il tempo che si potrebbe dedicare ad altro. E non è detto che sia una scelta volontaria, spesso è obbligata dall’assenza di altri che potrebbero occuparsene, ma anche dalle social norms per cui, in alcune culture, è un po’ un doversi prendere cura delle generazioni precedenti alla nostra, come anche delle successive.

Questo è un problema, perché quando una scelta non è sentita ma è obbligata, ci chiediamo sempre: “Cosa farebbe in un’altra condizione?”

Nello studio citate la cosiddetta “generazione sandwich”: di cosa si tratta?

Oltre a indagare l’effetto del lavoro sull’assistenza informale in base al tipo di mestiere che le donne fanno, le distinguiamo in base ai loro legami intergenerazionali, guardando almeno 3 generazioni. E ci chiediamo: “La lavoratrice in questione, oltre al genitore, ha anche dei nipoti di cui occuparsi?”.

Siccome le donne che prendiamo in considerazione hanno almeno 55 anni e al massimo 65, non ci interessa tanto sapere se hanno figli, perché sono già abbastanza adulte, ma ci chiediamo se abbiano nipoti o no: sappiamo che in Inghilterra, così come in Italia, l’assistenza informale data ai nipoti da parte dei nonni ha un valore economico molto rilevante e sostituisce le varie forme di assistenza pubblica.

La cosiddetta generazione Club Sandwich, che deve badare sia ai genitori che ai nipoti, mostra una riduzione di assistenza ai genitori molto più forte. Perché i vincoli di tempo sono ancora più ancora più importanti, e anche questo fatto è completamente ignorato dalle politiche pensionistiche, che certamente non si chiedono se la state pension age debba essere adattata in base al fatto che questa persona sia in un contesto sandwich o no. La politica pensionistica si basa sull’anno di nascita, così come le politiche di long term care.

In che modo il mondo delle pensioni e dell’assistenza informale e formale potrebbero evolversi in Italia e nel Regno Unito?

Ci sono probabilmente più modi: dal lato delle politiche di assistenza sociale, bisogna fare uno sforzo nel considerare la situazione di vita lavorativa dei caregiver familiari nel momento in cui si decide se dare o no un benefit all’anziano. Le politiche pensionistiche dovrebbero essere unite a delle politiche occupazionali che incentivino la cultura del part-time o della flessibilità per quei lavoratori che si trovano in una situazione di conflitto. Molto spesso, a livello aziendale, a parte degli esempi molto virtuosi, queste situazioni sono ignorate.

Suggeriamo che si mettano in campo anche interventi di sensibilizzazione e incentivo per favorire, magari, anche la transizione lavorativa di chi a 60 anni si trova ad avere il conflitto di cui abbiamo parlato. Per esempio, in Italia si vorrebbe estendere la platea dei lavoratori impegnati in attività usuranti, per cui è prevista una pensione anticipata: se una persona ha una storia lavorativa di un certo tipo, come in questo caso, potrebbe andare in pensione un po’ prima, oppure iniziare a lavorare part-time e prendere la pensione.

Il problema è che è possibile aspettarsi che alcune persone scelgano di cambiare la loro occupazione, che magari non è pesante, ed entrare in un lavoro pesante per poter andare in pensione prima.

Ci sono esempi positivi in Europa le cui politiche pensionistiche tengono conto anche dell’assistenza familiare e riconoscono la figura del caregiver?

Nessun Paese ha risolto davvero la questione, perché è molto complessa e ci vogliono tempo e consensi elettorali. Questi approcci comunque esistono, persino in Inghilterra, ma abbiamo notato che le aree di intervento pubblico in politica sociale tendono a non parlarsi, quindi le politiche di long term care, di assistenza sociale, non si parlano con le politiche pensionistiche. Non c’è una clausola o nella politica pensionistica o in quella di long term care, per cui si valuti il conflitto lavoro-famiglia nel decidere se aiutare una famiglia in qualche modo. Per esempio garantendo il part time, o una badante con un incentivo. Sicuramente i Paesi nordici hanno una cultura più ampia di copertura dei rischi, il supporto alle famiglie con una persona non autosufficiente è più ampio, arriva prima.

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