Storie

Pietro Orlandi: «Dietro le dimissioni di Benedetto XVI c’è anche il caso di mia sorella»

Dal 22 giugno di 40 anni fa, giorno in cui scomparve Emanuela Orlandi, il fratello ha fatto della ricerca della verità la sua ragione di vita. Qui il suo racconto in esclusiva a La Svolta
Pietro Orlandi, fratello di Emanuela Orlandi, durante la trasmissione Rai Porta a Porta condotta da Bruno Vespa, Roma, 10 gennaio 2023
Pietro Orlandi, fratello di Emanuela Orlandi, durante la trasmissione Rai Porta a Porta condotta da Bruno Vespa, Roma, 10 gennaio 2023 Credit: ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
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31 marzo 2023 Aggiornato alle 16:00

L’infinita storia legata alla scomparsa di Emanuela Orlandi aggiunge al tempo, dolore e incredulità.

Il 22 giugno del 2023 saranno passati esattamente 40 anni da quel pomeriggio assolato che ha tolto dall’affetto della sua numerosa famiglia - madre, padre, tre sorelle e un fratello – la ragazzina quindicenne che usciva da una delle solite lezioni di musica nel complesso di Sant’Apollinare, nei pressi di Piazza Navona, a Roma.

Da allora il mistero si è sempre di più infittito, e le ipotesi hanno varcato a uno a uno i limiti geografici, politici e criminali di tantissimi mondi, il Vaticano, lo Stato italiano, il blocco sovietico, la Turchia con l’attentatore del Papa Alì Agca, la mafia, la Banda della Magliana, mitomani e millantatori, e via via mille altre realtà, senza che mai permettessero di collegare pezzi di verità, anzi allontanandola.

C’è però uno snodo fondamentale da cui ripartire per provare a capire cosa sia successo e, soprattutto, giungere a chi conosce particolari, dettagli, moventi, decisori ed esecutori perché li riveli e permetta di comprendere. Tutto, nel corso di questi 40 lunghissimi anni, ruota attorno a esso.

Siamo nei mesi finali del 2011 quando il capo e il vice della Gendarmeria Vaticana, rispettivamente Domenico Giani e Costanzo Alessandrini, su incarico di Padre George Gänswein segretario particolare di Papa Ratzinger, ottengono un incontro in Procura di Roma con il Sostituto Giancarlo Capaldo e la collega Simona Maisto, entrambi titolari dell’inchiesta proprio su Emanuela Orlandi.

I due, ricevuti dai magistrati, dopo il clamore mediatico attorno alla incredibile rivelazione della sepoltura di Renatino De Pedis, il noto boss della Banda della Magliana, presso la chiesa di Sant’Apollinare attigua alla scuola di musica di Emanuela (mai fermatosi a seguito di una telefonata anonima a Chi l’ha visto del 2005 che suggeriva di andare a vedere la tomba per scoprire verità, ndr), chiedevano un aiuto per aprire il sarcofago, liberarsi degli ingombranti corpo e monumento funerario nel modo più discreto possibile, facendo risultare l’operazione come una scelta dello Stato italiano piuttosto che del Vaticano.

Capaldo e Maisto si dicono disponibili a interessarsi della questione, previa però rassicurazione che da parte della Santa Sede, in cambio, ci fosse la volontà di collaborare con gli inquirenti italiani attorno al caso di Emanuela Orlandi. A questo punto se, come sostiene da sempre, il Vaticano fosse totalmente estraneo alla questione ci si sarebbe atteso dai due gendarmi una risposta se non seccata, quanto meno perplessa: ‘Ma noi che ci entriamo?’ Invece no, Giani e Alessandrini, si dicono subito disponibili a fornire un dossier sul caso Orlandi e alla richiesta dei magistrati di procedere innanzitutto a fornire dettagli attorno alla sorte di Emanuela, se cioè sia viva o morta, rispondono positivamente. Di quello scambio tacito, poi, non si fece più nulla. I due gendarmi, così come comparvero, si eclissarono all’orizzonte e i tentativi di riallacciare un contatto di Capaldo e Maisto finirono in un nulla di fatto.

Di quell’incontro però, e quel tentativo di corruzione di magistrati in cambio di verità, purtroppo non vi è traccia documentabile. Non ci sono verbali, né esistono prove. Solo la parola di Capaldo e di Maisto, morta, peraltro, lo scorso anno.

L’incontro, avvenuto senza dubbio, anche se negato lato Vaticano, apre uno squarcio di luce nella penombra lugubre dell’intera storia e riporta tutto a dove è iniziata, lo Stato Vaticano. Come mai i due poliziotti della Santa Sede si dimostrano così sicuri riguardo alle informazioni su Emanuela Orlandi e i 28 anni trascorsi senza che nessuno ne abbia mai fornite?

Proviamo a capirlo parlando con Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, che da quel 22 giugno di 40 anni fa ha fatto della ricerca della verità la sua ragione di vita.

«Nella vicenda di Emanuela ci sono state varie fasi - racconta Pietro Orlandi -, quella più importante è dalla fine del 2011 a oggi, da quando, cioè, l’attenzione si sposta in maniera decisa sulla tomba di De Pedis. Già nel 1997 c’era stata una interrogazione parlamentare e uno sciopero della polizia perché si riteneva assurdo che un capo mafia fosse sepolto in una delle più belle chiese di Roma, ma poi tutto è finito lì. Sull’onda del clamore partito dalla telefonata a Chi l’ha visto del 2005, noi ritenevamo che su quella storia bisognasse fare luce e cominciammo a organizzare di continuo manifestazioni a Sant’Apollinare per chiedere l’apertura della tomba, non perché pensavamo che lì ci fosse il corpo di Emanuela, ma perché se quella persona aveva quel tipo di telefonata così circostanziata, era molto probabile che la vicenda di Emanuela fosse collegata in qualche modo con De Pedis e che ciò potesse far emergere il legame tra Stato vaticano, Stato italiano e mafia. Era importante, quindi, che si indagasse su quella tomba. Venimmo a sapere, infatti, che per quella sepoltura richiesta dal rettore di Sant Apolinnare Mons Vergari, l’autorizzazione venne concessa da Poletti, il Cardinal Vicario di Roma e dal Ministero degli Interni il quale dovette intervenire perché per esumare una bara da un cimitero dello Stato e trasferirla in territorio vaticano, era necessario un suo avallo. La cosa più assurda è che per consentire la sepoltura in una chiesa fu prodotto un elenco di opere di bene svolte dal De Pedis (“non l’ho ancora mai potuto vedere”), opere peraltro confermate da Vergari che disse che era un benefattore di poveri della parrocchia».

«Quando si parla di legame tra crimine, Stato e Vaticano - continua Pietro -, bisogna tener presente, poi, che nel complesso da cui è uscita Emanuela il giorno del rapimento (Sant’Apollinare) c’era l’ufficio di Scalfaro, molto amico di Poletti e Vergari e che Poletti e Vergari, poi, conoscevano bene De Pedis. È uno strano intreccio, io stesso ho visionato lettere di Vergari a Scalfaro, ad Andreotti in cui si chiedeva aiuto per i famigliari di De Pedis. All’epoca, c’era ancora molta sudditanza delle istituzioni italiane verso il Vaticano, da qualche anno, invece, vedo che la cosa è cambiata molto. Non dimentichiamoci che molti politici avevano il conto allo Ior, la banca del Vaticano, dove io, peraltro ho lavorato per anni. La fase innescata dalla questione della tomba di De Pedis, quindi, è secondo me la più importante in questi 40 anni».

«Dopo tante manifestazioni, tra il 2011 e il 2012 che cominciano a cambiare le cose e avviene un fatto molto importante che io, purtroppo, ho saputo solo nel 2016: Capaldo e Maisto ricevono in procura Giani e Alessandrini, come portavoce direttamente del Papa. Dicono che la questione della tomba di De Pedis sta imbarazzando la Chiesa che se l’eliminazione del sarcofago lo fa il Vaticano la gente può avere dubbi che voglia nascondere cose segrete…“è meglio se lo fa lo Stato italiano”».

Perché un’istituzione come il Vaticano si presta a garantire una sepoltura a un boss mafioso in una chiesa dove neanche sono sepolti papi e cardinali?

«Questo è un mistero, ma fa ben emergere quanto il livello di ricatto fosse alto e probabilmente andava al di là dello stesso De Pedis, o che c’è qualcos’altro di ancora più losco. Non lo sapremo mai. Tornando invece all’incontro in procura, Capaldo accetta di discuterne ma chiede qualcosa in cambio. Qualche giorno dopo Giani e Alessandrini fanno sapere di essere disposti a consegnare un fascicolo con nomi di persone che potrebbero aver avuto un ruolo e aggiungono: “ma sappiate che non si può andare oltre quei nomi” e “sappiate che la verità, tutta la verità non potrà e non dovrà mai uscire”, rendendo così palese che sanno molte cose e che alcuni nomi non possono essere fatti. “D’accordo – rispose Capaldo - ma prima di sapere nomi e responsabili, la famiglia vuole sapere subito almeno se è viva e potrà riabbracciarla o se e è morta e potrà avere i resti”. La risposta, a quel punto, non è stata “Ma noi che ne sappiamo?” No, “Va bene, faremo sapere alla famiglia della sorte di Emanuela”. Quindici giorni più tardi, i due gendarmi confermano la disponibilità a fornire il dossier e informazioni a patto, però, che la procura avesse imbastito una storia verosimile che avesse tolto ogni responsabilità al Vaticano. Questa, come vogliamo chiamarla se non corruzione?».

Quell’incontro non c’è agli atti, ma si dispone solo della parola di Capaldo: è stato mai smentito dal Vaticano?

«Assolutamente no. Che l’incontro sia avvenuto è certo, ne parla anche Padre George nel libro, non cita mai Emanuela ma dice che Giani e Alesandrini sono andati per la questione di De Pedis. Capaldo, mi ha riferito di recente che un giorno parlando con la Maisto disse proprio “Eravamo a un passo…”. Da quel momento in poi, i gendarmi spariscono. Allora Capaldo, a metà 2012, mentre manifestavamo, dichiarò all’Ansa una cosa che mi colpì tantissimo, era la prima volta che un magistrato faceva quel tipo di collegamenti. “Ci sono personaggi in Vaticano che sanno”. E aggiunse “Io non faccio procedere all’apertura della tomba per il momento perché non lo ritengo utile ai fini dell’indagine”. L’ha detta per Giani e Alessandrini perché comprendessero che il patto, a quel punto, era interrotto. Ma nel pomeriggio dello stesso giorno avviene un nuovo colpo di scena: il nuovo capo della procura Giuseppe Pignatone si dissocia dalle dichiarazioni di Capaldo: “Non appartengono a questo ufficio, per quanto riguarda la tomba, sarà aperta”. In una mossa sola ha fatto capire che a quel punto ogni trattativa sotterranea era sospesa e che de facto si era presa lui l’indagine come capo della Procura lasciando a Capaldo solo indagini ma solo su autorizzazione. Ha poi anche rimosso Rizzi, capo della mobile, molto attivo nell’inchiesta, mandandolo alla stradale. Ha aperto la tomba e poi ha archiviato tutto. C’è una intercettazione tra la moglie di De Pedis e Mons. Vergari di quel periodo che inchioderebbe Pignatone, la moglie dice: “Possiamo stare tranquilli, è arrivato il procuratore nostro, ci penserà lui a far tacere Orlandi che sta facendo un casino, ha già cacciato Capaldo e Rizzi e messo i suoi e poi ha assicurato ai miei avvocati che archivia tutto”. E infatti puntualmente Pignatone chiude tutto a maggio 2015. Ora Pignatone è Presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, è stato nominato da Papa Francesco nell’ottobre del 2019 e sarà lui, quindi a condurre l’inchiesta aperta da Bergoglio a gennaio».

«Negli anni sono entrato in buoni rapporti con Capaldo e nel 2016 gli chiedo di uscire allo scoperto, parlare di quell’incontro e insistere sul fatto che in Vaticano si sanno molte cose.

Finalmente in occasione delle presentazione del suo romanzo La ragazza scomparsa (dedicato alla vicenda di Emanuela, ndr) uscito due anni fa, anche se in modo non proprio diretto, fece capire il concetto ed è stato chiamato in procura. Ma badate bene non per accertamenti, solo perché gli si contestava di non aver verbalizzato a Pignatone, non gli hanno mai chiesto se avesse o no avuto questo incontro e che tipo di interlocuzioni fossero intercorse con Giani e Alessandrini. Tramite il nostro avvocato, la Dott.ssa Sgrò, abbiamo fatto richiesta in procura per incontrare i magistrati che hanno convocato Capaldo e per sapere come mai la Maisto non fosse mai stata convocata, ma non ci hanno mai risposto e la Maisto è morta due mesi fa. Non ci rispondono mai dalla procura, come dal Vaticano».

Nel frattempo, in Italia è cominciato l’esame della proposta di legge per istituire una commissione bicamerale d’inchiesta sulle scomparse di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, ed è proprio di questi giorni la notizia del voto favorevole unanime della Camera dei Deputati.

«Sono fiducioso e le posso dire che ho seguito il dibattito dalla tribuna della Camera e ho notato un nuovo e forte interesse di tutti verso il caso di mia sorella e di Mirella. Una Commissione non può agire come la Procura, ma quasi, e siccome la volontà c’è io penso che qualcosa di buono uscirà. Spero che i tempi si abbrevino e già da aprile i lavori possano cominciare e credo che una delle prime cosa da fare sia convocare Capaldo e subito dopo Giani e Alessandrini. Questa è la cosa più importante. Sono contento della commissione già solo per questo. Io ho le carte delle intercettazioni tra la moglie di De Pedis e Vergari. Ho incontrato varie volte Giani, lo sentivo spesso sempre riservatamente però, non davanti a un verbale. Ma il fatto che aveva istituito un fascicolo è sicuro».

Ne parla anche Padre George.

«Ma certo, io nel 2011 ho incontrato Padre George e mi disse testualmente “Ora incaricherò Giani di fare una ricerca, io stavo da lui per consegnare a Ratzinger una petizione e lui mi disse “Il Papa si occupa di cose spirituali soltanto, ci penserò io, voglio fare interessare Giani”. Fu quindi prodotto un fascicolo che stava sulla scrivania di Padre George (che ha poi negato tutto, tranne l’incontro in procura ma solo per la questione della tomba di De Pedis, ndr), Paolo Gabriele (l’ex maggiordomo di Benedetto XVI, protagonista del primo caso Vatileaks, incarcerato e poi graziato da Ratzinger ndr) me lo confermò».

Dall’annuncio dell’apertura di un’inchiesta fatto da Papa Francesco nei primi giorni di gennaio a oggi, si sono avuti aggiornamenti?

«No, niente. Le aggiungo che noi abbiamo saputo dell’inchiesta dai giornali, a noi non è mai stato annunciato nulla e l’unica cosa che abbiamo ricevuto è una mail, in risposta a una richiesta della nostra avvocata, non di sua volontà, del promotore di giustizia Diddi che ci informa che saremo ragguagliati al termine delle indagini delegate».

Ratzinger, passato alla storia, tra le tante cose, come colui che ha dato inizio a un’operazione di trasparenza sugli scandali di abusi e pedofilia relativi alla chiesa cattolica, si ritrova tra le mani il fascicolo di Emanuela che, presumibilmente, chiama in causa persone e mondi interni al Vaticano e apicali: è corretto?

«Sì: Capaldo sostiene che ci sia il caso di mia sorella dietro le sue dimissioni. Io credo che dopo gli incontri tra me e Padre George e quella proposta di scambio sulla tomba di De Pedis, che io definisco di corruzione, qualcuno avrà detto “Non se ne parla proprio. Non diamo nulla in cambio”, e si sono rivolti a Pignatone. Io mi immagino che lui abbia fatto un ragionamento del tipo “Ma perché mi devo complicare la vita per questa storia?” si è dissociato dalle dichiarazioni di Capaldo e ha poi archiviato il caso. Se il Vaticano nasconde per 40 anni e non accetta di parlare, è perché qualcuno di molto importante, forse Papa Giovanni Paolo II stesso, ha grosse responsabilità. E Benedetto XVI lo sapeva, è possibile che si sia dimesso anche per questo. Ma proprio per questo il Vaticano dovrebbe parlare, perché se la verità la tiriamo fuori noi la Chiesa ne uscirebbe molto male. Se invece, con umiltà e chiarezza il Vaticano comincia ad aprirsi, fa un bene alla verità e alla chiesa stessa».

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