Diritti

Dove c’è casa c’è lavoro 

No, la cura domestica non si fa per amore: l’ha sancito una causa di risarcimento record in Spagna, riaprendo un dibattito fermo dagli anni ’70
Credit: Karolina Grabowska
Tempo di lettura 5 min lettura
19 marzo 2023 Aggiornato alle 06:30

«Sapevo di sollevare un argomento scomodo, eppure il tarlo si annidava nei pensieri che ribollivano, nella frustrazione che ogni giorno galoppava. E alla fine scava che ti scava, ecco che sbuca fuori una sera dopo cena, la tavola ancora da sparecchiare, la tv sull’ennesimo tiggì e mi scappa da dire al mio compagno: “Quello che faccio in casa è un lavoro. Mi andrebbe riconosciuto”».

Alt! Fermiamo un attimo l’inquadratura. Blocchiamo il racconto di questa scena familiare che potrebbe accadere alla nostra tavola o nella cucina dei nostri vicini durante una serata qualunque, in qualsiasi parte del Paese. Osserviamo il momento prima che una reazione sposti per sempre l’attenzione dalla richiesta (legittima) a una possibile conseguenza (ancora imprevedibile).

In base al grado di emancipazione presente a quella cena, l’effetto di una rivendicazione simile può essere molto diverso.

Scenario A. Il compagno empatico alza la testa dal piatto, si mette in posizione di ascolto, prende quella frase come l’inizio di un confronto onesto e aperto sul senso del lavoro casalingo non retribuito. Sente di voler approfondire perché magari non aveva mai pensato che l’ordine e l’organizzazione della casa, dei figli, la tenuta del calendario della vita familiare, la responsabilità e il peso di dirigere il traffico di vite altrui fossero, tutti insieme, un carico fisico e mentale impegnativo e non equamente ripartito, come spiegato dalla sociologa francese Monique Haicault già nel 1984, nell’articolo La gestione ordinaria della vita in due.

Un mestiere carico anche di una serie di competenze specifiche, che se si fosse in un ufficio si chiamerebbero time e team management, scheduling, multitasking, proactivity, resilience, strong attitude to work under pressure, disponibilità a sgobbare su turni, senza ferie, senza soste. Senza mai vedere un centesimo.

Il compagno empatico chiede, si informa, apre un canale di comunicazione, e in queste condizioni la partner è in grado di portarlo per mano al ragionamento che ribolle nella sua testa. Ovvero: tutto quello che fa adesso durante il giorno, fino a pochi mesi prima veniva appaltato a 2 persone retribuite a ore per occuparsi di casa e figli, pagate per un servizio che fornivano, per la forza lavoro che scambiavano.

Invece ora lei lo fa gratis e si domanda: che economia distorta considera il lavoro domestico e di cura dei bambini gratuito, e associa un valore monetario allo stesso identico mestiere quando viene svolto da una persona esterna alla famiglia?

La questione del salario minimo alle casalinghe (o casalinghi, ma sappiamo che sono molti meno), cavallo di battaglia della sociologa femminista Silvia Federici negli anni ‘70, non si è mai risolta in una vera legge che costringa a riconsiderare la long maternity e la cura di ogni aspetto familiare come un vero impiego. Come un empowerment necessario in un’Italia in cui il 51% delle donne lavora esclusivamente “per” la casa.

Dimentichiamo il compagno empatico.

Scenario B. Il compagno scocciato è scioccato. Sono mesi che è l’unico breadwinner della coppia (quello che guadagna il pane), lei non riesce più a trovare un posto decente, spedisce curriculum a vuoto e ora si lamenta pure che fa la pulizie e va a prendere i bambini. La tavola si irrigidisce, il canale di comunicazione è interrotto, non si è creato un terreno fertile per evolvere la discussione.

Lei, forse, non è così certa di poter rivendicare una retribuzione, non si può appellare a nessuna normativa, non ricorda se nel diritto del lavoro si parli di questo tipo di argomenti. E poi non sono sposati, convivono e basta, stai a vedere che doveva pensarci, che si vive ancora in un Paese dove solo il matrimonio ti tutela. E insomma forse ha ragione lui, non si può considerare un mestiere salariato quello che mamme e nonne e bisnonne e tutte prima di lei hanno svolto senza nulla in cambio, magari avendo anche professioni e impieghi fuori casa. E tra l’altro, a chi dovrebbe chiederla questa retribuzione scusa, al suo convivente o allo Stato?

Siamo nel mezzo di un cortocircuito sociale, economico e culturale, la posizione della donna arretra, il compagno è disorientato e cerca di risolvere la questione con una frase tombale: «Queste cose si fanno per amore».

Brividi.

I brividi che deve aver avuto il giudice spagnolo che ha appena riconosciuto una indennità di 204.624 euro a una casalinga di Malaga che si è separata dopo 25 anni di matrimonio. Marta Fuentes ha chiesto un risarcimento per il lavoro domestico svolto per metà della sua vita e che le aveva anche levato spazio a una possibile carriera. La sentenza le ha riconosciuto una “indennità compensativa per la dedizione ai lavori domestici” prevista dal codice civile iberico. Tutta intera la cifra può sembrare alta, ma facendo i conti sono circa 600 euro al mese. Mica poi tanto.

«Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato» scriveva Silvia Federici nel documento Salario contro il lavoro domestico del 1974.

E sapete quanto varrebbe questo unpaid full-time work? Secondo lo studio indipendente dell’International Labour Organization, se casalinghe e caregiver di tutto il mondo venissero salariati al minimo il conto arriverebbe a 11 trilioni di dollari.

Di quanti lavoratori invisibili si tratta? 647 milioni. Di questi, 606 milioni sono donne.

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