Diritti

Psicofarmaci: Fedez e il tabù dell’effetto rebound

Il consumo di psicofarmaci è in aumento esponenziale, specie tra gli adolescenti. Medici e psichiatri li prescrivono senza spiegare le conseguenze e informare i pazienti del temibile, e drammatico, fenomeno rimbalzo
Credit: Mireille Raad

Di psicofarmaci si può morire, eppure in pochi lo sanno. La vicenda - ancora da chiarire - della ragazza di Monza deceduta probabilmente per un mix letale tra ansiolitici e alcol ce lo ha brutalmente ricordato.

Medicine perfettamente legali, a differenza delle droghe, e che pure al pari delle sostanze stupefacenti hanno non solo effetti collaterali che possono essere nefasti, ma soprattutto creano una dipendenza sfrenata, dalla quale è difficile recedere: è il cosiddetto effetto rebound, di cui ha parlato di recente il rapper Fedez, raccontando della difficoltà di smettere uno psicofarmaco. Tanto che, ha spiegato, ha sofferto di nausea, mal di testa, spasmi muscolari, vertigini, insonnia oltre a perdere tanto peso in pochissimi giorni.

Un abuso in crescita, pure tra adolescenti

Quello degli psicofarmaci è un tema che ogni tanto arriva nelle pagine dei giornali (anche se spesso come allarme generico, senza che se ne indichino davvero cause e soluzioni). Perché i numeri sono impressionanti, la crescita è continua (15-20% negli ultimi cinque anni secondo la Società Italiana di Neuropsicofarmacologia), in tutte le fasce della popolazione.

Li usano gli anziani, gli adulti schiacciati in vite faticose, gli adolescenti, spesso aggirando la prescrizione medica (oltre il 10% dei ragazzi tra i 15 e i 19 anni).

Proprio gli adolescenti, fascia particolarmente a rischio perché il cervello non è completamente formato, li mischiano ad altri tipi di sostanze, come droghe e alcol. In questo modo disagi e patologie psicologiche si aggravano, mentre la cura si fa sempre più difficile e complicata.

Senza psicoterapia niente psicofarmaci

Ma il problema non si risolve spesso con un’assunzione “corretta” e sotto controllo medico degli psicofarmaci, l’unica consentita, tra l’altro. Perché spesso a prescrivere questi farmaci sono medici di base con scarse competenze.

Oppure, anche, psichiatri, che magari vedono la persona una tantum e senza che ci sia una equipe di lavoro che segua il paziente anche con una psicoterapia, senza la quale l’utilizzo di psicofarmaci resta sempre rischioso. Il sostegno principale dovrebbe essere sempre la psicoterapia.

Il farmaco dovrebbe rappresentare una sorta di lieve aiuto ponte, qualcosa che si prende in minime quantità e per un breve periodo di tempo.

Se il bugiardino dice quattro settimane

Così non è. A dispetto dei vari bugiardini dove è scritto che, prendiamo le benzodiazepine, l’utilizzo non dovrebbe superare le quattro settimane, spesso invece l’assunzione degli psicofarmaci diventa una cosa cronaca, che dura mesi se non addirittura anni, se non addirittura una vita.

Perché appunto difficilmente lo psicofarmaco viene concepito anche dallo stesso psichiatra come un aiuto minore e parallelo, come dovrebbe essere perché il malessere psicologico si cura con la parola (e con gli psicoterapeuti giusti, non sempre facili da trovare e che possono anch’essi causare danni).

Ma una volta fatta un’assunzione importante, diventa difficilissimo tornare indietro. Ovvero diminuire i farmaci, magari smetterli. Gli stessi psicoterapeuti, dal canto loro, a volte ignorano quando i loro pazienti prendono farmaci e le loro conseguenze, rendendo più difficile anche la cura attraverso la parola.

Sospensione degli psicofarmaci e crisi di astinenza

È, appunto, il problema del cosiddetto effetto rebound. Una sospensione brusca degli psicofarmaci può causare effetti drammatici, un malessere sconfinato, vere e proprie crisi di astinenza, a dimostrazione della potenza di questi farmaci.

Chi li usa, infatti, li porta sempre con sé, specie nei viaggi, facendo un’attenzione spasmodica a non perderli perché le conseguenze sarebbero, appunto, tremende. Ma anche una diminuzione progressiva e blanda di questi farmaci può causare malessere, insonnia, mal di testa. E di fatto talvolta neanche gli psichiatri stessi sanno esattamente come si dovrebbero scalare.

Un noto psichiatra statunitense, Peter R. Breggin, che da anni combatte l’industria degli psicofarmaci in America, con case farmaceutiche sempre più pronte a brevettare sostanze di cui le persone sono incapaci poi di liberarsi, ha scritto un libro molto importante, La sospensione degli psicofarmaci. Un manuale per i medici prescrittori, i terapeuti, i pazienti e le loro famiglie (tradotto in Italia da Giovanni Fioriti editore), da dove si evince l’estrema complessità dello scalaggio di un farmaco.

Qualcosa per il quale possono occorrere non solo mesi, addirittura anni. Ed esiste in Italia un gruppo privato su Facebook che si ispira proprio a Breggin, per aiutare chi affronta questo difficile momento.

Il tema è particolarmente drammatico per quelle donne che assumono psicofarmaci e restano incinte, perché, anche se molti farmaci possono essere presi, altri vanno immediatamente tolti, con conseguenze rischio rebound in un momento delicato e particolare. Una questione, questa, del tutto ignorata.

Curare le emozioni con le emozioni

Scalare uno psicofarmaco è una cosa difficile e che mai può essere fatta da soli. Richiede una sorta di sospensione anche dalle consuete attività vitali, per potersi concentrare su questo compito ingrato e complicato. Grammo dopo grammo, restando fermi su ogni riduzione per molte settimane.

Per questo l’unico modo per affrontare davvero il problema sarebbe agire a monte, attraverso una riduzione massiccia del loro uso e abuso, sintomo di una società dove i farmaci sono dilagati in qualsiasi ambito vitale, come sanno bene i farmacisti, che sugli psicofarmaci fanno buona parte del fatturato, chiudendo anche un occhio su ricette scadute o non valide.

La verità è che bisognerebbe tornare a curare le emozioni con le emozioni, usando gli psicofarmaci come il ghiaccio sopra una contusione o una frattura: misura d’emergenza da togliere dopo poco.

Ma per far questo servirebbe anche un’altra società. Una società in cui siano garantiti tempi umani per riposare, curarsi, senza dover inseguire la sopravvivenza economica o dover far fronte all’assenza di protezione e di welfare che permettono un’esistenza più umana.

Invece in Italia sono diventati una forma di aiuto esistenziale in un mondo senza sostegni: li si prende per tirare avanti, per affrontare i carichi di lavoro e familiare. Ignorando anche le conseguenze di un uso a lungo termine sul nostro cervello e sulla memoria, anche non sufficientemente studiate. E che potrebbero rappresentare il conto finale presentato da queste temibili medicine che la maggior parte delle società umane, fortunatamente, non ha mai conosciuto.

Perché, no, non si parla di antibiotici, ma di farmaci che riducono la complessità umana a chimica. Una frontiera che forse non si sarebbe dovuta mai varcare.

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