Ambiente

Quando la moda africana denuncia l’usa e getta del Nord del Mondo

Nei mercati del Ghana una nuova corrente di stilisti e designer si impegna a trasformare gli scarti della moda occidentale in abiti nuovi
Credit: J.K.M Wormenor
Tempo di lettura 4 min lettura
13 marzo 2023 Aggiornato alle 10:00

Pile di jeans, maglie con slogan delle elezioni o di importanti eventi sportivi. O ancora una scarpa con il tacco senza la compagna e sandali di finta pelle consumati.

Sono questi, in genere, i prodotti venduti nei mercati come quello ghanese di Kantamanto ad Accra. Una nuova corrente di stilisti e designer africani sta cercando di trasformarli da scarti della moda occidentale in abiti nuovi, che denuncino la cultura dell’usa e getta.

La maggior parte dei vestiti che i consumatori mettono nei cestini delle donazioni non vanno alle organizzazioni di beneficienza. Spesso rischiano di finire nelle discariche di tutto il mondo.

Da decenni enormi quantità di vecchi indumenti arrivano in Stati come Ghana, Kenya e Uganda, per essere rivenduti nei mercati locali. Questo business è molto redditizio e impiega migliaia di persone: nel 2021 ammontava a 211 milioni di dollari il valore degli abiti esportati solo ad Accra.

Nel corso del tempo queste importazioni hanno danneggiato molte industrie tessili. Inoltre la qualità dei vestiti è peggiorata con la crescita della fast fashion. In Ghana i vestiti ora vengono lavati sulle spiagge, esacerbando il problema da inquinamento da microplastiche, causato dalla dispersione dei tessuti sintetici. Almeno il 40% degli indumenti comprati dal Paese, secondo l’organizzazione no-profit Or Foundation, finisce in discarica.

Per i giovani designer come Yayra Agbofah, fondatore dello studio The Revival, questo non è più accettabile. Ogni giorno visita il mercato di Kantamanto per recuperare dagli scarti nuovo materiale per le sue creazioni. Le sue borse, vendute nel negozio del Victoria and Albert Museum di Londra, sono realizzate con denim riciclate e hanno lanciato una nuova moda, con un significato anche politico ed ecologico.

Anche linea Boie & Bill del designer ghanese Elisha Ofori Bamfo mira a creare una firma forte, usando capi rigenerati. L’etichetta incorpora stampe africane e colori audaci: a esempio, la giacca Blackstar Bomber replica la bandiera del Ghana.

L’artista disciplinare Sel Kofiga invece sta promuovendo, con il suo Slum Studio con sede ad Accra, una collezione limitata di camicie e pantaloni colorati dipinti a mano con tessuti usati. Gli indumenti mostrano scene astratte dei mercati e sono stati indossati da celebrità ghanesi tra cui il musicista Pure Akan.

Anche lo stilista ugandese Bobby Kolade, fondatore e direttore creativo di Buzigahill, a Kampala, ha lanciato una collezione di quattro capi unici, che provengono da vecchi vestiti rigenerati. Il suo obiettivo finale è quello di creare una filiera sostenibile e assumere il maggior numero possibile di ugandesi. Il messaggio creativo e di denuncia è contenuto nel titolo: “Return to Sender” (“Restituisci al mittente”), ossia il Nord del mondo. I pantaloni della tuta patchwork a blocchi di colore e giacche di jeans sfilacciate oversize, sono venduti in tutto il mondo attraverso una piattaforma online. I prezzi arrivano anche a 180 dollari.

Anche in Sudafrica arriva una grossa mole dei vestiti scartati da Stati Uniti, Europa e Cina, nonostante il Governo abbia ridotto le importazioni. Il marchio Mami Wata ha recentemente lanciato una collezione di maglioni riutilizzati, in collaborazione con il mercato vintage 3Thrifty5. La prima consegna ha fatto il tutto esaurito. L’idea è, ancora una volta, rimandare i vestiti usati a coloro che, per primi, se ne sono liberati. Alcune felpe sono decorate con frecce, aerei di ritorno e con scritte che recitano “Afrique Amérique” (Africa - America) in francese, la lingua ufficiale di 21 Paesi africani.

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