Bambini

Lavoro: la motherhood penalty è una realtà internazionale

Le madri britanniche di 42 anni guadagnano il 7% in meno rispetto alle lavoratrici senza bambini, denuncia il Trades Union Congress. Un fenomeno che colpisce anche Usa e Italia
Credit: Anna Shvets
Tempo di lettura 6 min lettura
9 marzo 2023 Aggiornato alle 13:00

Nel Regno Unito essere una madre lavoratrice pesa più oggi che negli anni ‘70. È la cosiddetta motherhood penalty, una condizione di penalità retributiva per le donne che scelgono di avere figli. Per farla breve, dopo il parto la loro condizione retributiva peggiora e si amplia il divario retributivo con gli uomini padri a pari grado di istruzione.

Secondo il report Woman in Work di PricewaterhouseCoopers (PwC), nel 2021 il gender pay gap è aumentato di 2,4 punti percentuali arrivando al 14,4% a danno delle donne inglesi. Tanto che, secondo lo studio del Trades Union Congress, le madri di 42 anni guadagnano il 7% in meno rispetto alle donne senza figli. Per i padri, invece, non esiste nessuna “penalità”: al contrario, si stima che gli uomini con figli guadagnino il 21% in più dei colleghi che non hanno figli (un fenomeno anche statunitense).

Così, il divario retributivo tra uomini e donne ha fatto scendere il Regno Unito di ben 5 posizioni rispetto al 2020 nella classifica stilata da PwC tra i Paesi Ocse. 3 anni fa, infatti, gli inglesi erano al 9° posto mentre oggi retrocedono al 14°. Una marcia indietro sul piano dell’uguaglianza di genere che si spiega anche perché è diminuito il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro ed è cresciuto quello di disoccupazione.

Perché aumenta il divario retributivo tra madri e padri?

Se il divario retributivo manterrà questi ritmi serviranno più di 50 anni per raggiungere la parità retributiva di genere. Quello del PwC assume i contorni di un vero e proprio allarme sociale che dovrebbe stimolare la sensibilità di aziende e politica: questa, infatti, è chiamata a elaborare misure di contrasto al declino retributivo.

Nel suo rapporto, PwC spiega che la motherhood penalty rappresenta “il motore più significativo del divario retributivo di genere”. Ma nel regno Unito questa condizione di “penalità” è stata rafforzata da 2 fattori. In primis, si legge nel rapporto, si assiste a una “crisi di accessibilità dei servizi per l’infanzia” i cui costi – tra il 2015 e il 2022 – sono lievitati mentre diminuivano i salari delle famiglie inglesi. Oggi, infatti, i costi per l’assistenza all’infanzia corrispondono a circa un terzo del reddito medio di una famiglia britannica. E questo non fa altro che spingere le donne a lasciare il proprio lavoro o a ridurre le ore lavorative per occuparsi dei figli.

È sulle donne, dunque, che continua a gravare il lavoro di cura all’interno della famiglia. Il punto, però, è che non si tratta solo di una condizione culturale, ma di una scelta conveniente dal punto di vista economico. Se un uomo guadagna di più di una donna, infatti, è chiaro che sarà lei a porsi il problema di sacrificare il lavoro pur di non dover sopportare i crescenti costi dei servizi dell’infanzia.

E per la stessa ragione (i salari maschili sono più alti di quelli femminili), dopo la nascita di un figlio i padri sono più ostili a utilizzare il congedo di paternità per non intaccare eccessivamente le entrate mensili. Secondo il rapporto di PwC, la “scarsa accettazione da parte dei padri del congedo parentale” è il secondo fattore che accentua la motherhood penalty. “Dobbiamo progettare e sviluppare soluzioni politiche che affrontino attivamente le cause alla base della disuguaglianza che esiste oggi - spiega Larice Stielow, economista di PwC - Se i padri usufruissero di più congedi parentali, ci sarebbero benefici considerevoli e a lungo termine per le donne, le famiglie e la società nel Regno Unito”.

La motherhood penalty in Italia

Stando ai dati del rapporto Woman in work, i migliori Paesi Ocse – secondo una serie di indici in tema di occupazione femminile – sono Lussemburgo, Nuova Zelanda e Slovenia. Ma nonostante la situazione illustrata, il Regno Unito è al primo tra i Paesi del G7 pur collocandosi complessivamente al 14° posto. L’Italia, invece, è alla 30° posizione. A relegarla in basso sono diversi indicatori come il tasso di occupazione e disoccupazione, la presenza di donne all’interno dei consigli di amministrazione e il tasso di partecipazione alla forza lavoro.

Ma se si considera solo l’indicatore del gender pay gap, la Penisola non se la cava così male. Rispetto alla media europea del 12,7%, il divario retributivo tra uomini e donne in Italia si attesta al 5%. Un valore ben al di sotto di quello del Regno Unito (14,4%).

Secondo il rapporto Equilibriste: la maternità in Italia nel 2022, realizzato da Save the Children, tanto sul versante occupazionale quanto su quello retributivo “le donne, a differenza degli uomini, scontano ancora un notevole svantaggio quando, nei loro orizzonti di vita prende corpo la maternità”.

Parlando di numeri, secondo la recente indagine Inapp-Plus descritta nel Rapporto Plus 2022. Comprendere la complessità del lavoro, il 18% delle donne tra i 18 e 49 anni non lavora più dopo la nascita del primo figlio. Il principale motivo risiede nella difficoltà di conciliare lavoro e cura (52%), seguito dal mancato rinnovo del contratto o dal licenziamento (29%) e da valutazioni di convenienza economica (19%).

Rispetto al Regno Unito, tuttavia, l’Italia conta ancora su una rete famigliare di supporto alla genitorialità che in qualche modo tampona la carenza di asili aziendali e i costi delle strutture private per l’infanzia che, come spiegato, rappresentano un fattore aggravante della motherhood penalty. Il 58% delle famiglie ricorre all’aiuto dei nonni, soprattutto nel Mezzogiorno (63%).

Quindi anche in Italia, come nel Regno Unito, il lavoro di cura continua a essere prevalentemente nelle mani delle donne. Pensiamo al fatto che il congedo di paternità è stato introdotto in Italia nel 2013 e che solo nel 2022 è stato esteso a 10 giorni lavorativi (nel 2013, infatti, era solo uno il giorno di congedo previsto per i papà).

Questo non significa che la misura obbligatoria sia entrata nel “Dna” dei padri lavoratori. L’indagine di Fondazione Libellula, infatti, rivela che “il 36% dei padri dichiara di non aver mai utilizzato gli strumenti a disposizione (congedi parentali, permessi) per occuparsi di figli/figlie”. Come se il loro apporto alla cura della famiglia fosse opzionale.

Leggi anche
Gender gap
di Sara Capponi 4 min lettura
tecnologia
di Valeria Pantani 3 min lettura