Diritti

Cos’è il texturism che discrimina (ancora) sul lavoro?

Le persone con i capelli afro sono penalizzate negli ambienti lavorativi, dai colloqui alle promozioni. La campagna Black hair is professional vuole cambiare la prospettiva
Credit: Good Faces
Tempo di lettura 4 min lettura
12 marzo 2023 Aggiornato alle 11:00

Nonostante i progressi degli ultimi anni, la discriminazione razziale sulla base dei capelli è ancora un problema sistemico sui luoghi di lavoro, soprattutto per le donne bipoc che per questo motivo (ma non solo) hanno meno opportunità di trovare un’occupazione e di crescere professionalmente.

Il fenomeno è detto texturism e prende in prestito dall’inglese il riferimento ai cosiddetti textured hair, i capelli al naturale delle persone di origine afroamericana, nelle diverse varianti kinky o coily.

LinkedIn e il brand di saponi e prodotti per il corpo Dove hanno creato insieme una campagna di sensibilizzazione volta a creare un ambiente di lavoro più inclusivo ed equo per le persone con capelli afro, accompagnato dallo slogan: Black hair is professional, che sottolinea come la professionalità possa essere associata a qualsiasi tipologia di capelli.

Dove è anche tra i co-fondatori di un’associazione che ha promosso l’adozione negli Stati Uniti del Crown Act per la tutela dalla discriminazione per i capelli naturali. Dopo l’approvazione alla Camera dei Rappresentanti a marzo dell’anno scorso, il disegno di legge a dicembre non ha ottenuto voti sufficienti al Senato a causa dell’opposizione di alcuni repubblicani. La tutela oggi è quindi garantita solo a livello statale in 19 Stati. Gli ultimi a introdurre una legislazione simile al Crown Act sono stati Maine, Tennessee, Louisiana, Massachusetts e Alaska nel 2022 e Minnesota a gennaio 2023.

Secondo quanto riportato nel Crown Workplace Research Study del 2023, le discriminazioni sulla base dei capelli continuano a insinuarsi nelle organizzazioni lavorative a tutti i livelli e in fasi diverse, dai colloqui di assunzione alle quotidiane interazioni con i colleghi, con un impatto negativo sulle donne sia dal punto di vista sociale sia economico.

Per avere più possibilità di essere assunte, circa 2/3 delle donne bipoc (il 66%) ha cambiato l’aspetto dei propri capelli ai colloqui di lavoro. E tra queste, il 41% li ha lisciati per omologarsi ai tratti tipici occidentali. Più della metà (il 54%), infatti, ritiene di doverlo fare per sperare in un colloquio dall’esito positivo. La pressione è sentita soprattutto tra le giovani, probabilmente per motivi di insicurezza legati all’età, che nelle foto professionali sentono di doversi mostrare con una piega liscia.

Il timore non è infondato, perché – come dimostrano i dati dello studio – la probabilità che i capelli afro al naturale siano percepiti come non professionali è 2.5 volte più alta. E il 20% delle donne nere tra i 25 e i 34 anni è stato mandato a casa dal lavoro a causa dei propri capelli.

Il report di Catalyst, organizzazione non-profit globale che promuove ambienti di lavoro migliori per le donne, ha confermato la presenza del texturism sui luoghi di lavoro.

Una delle donne intervistate per realizzarlo ha riferito che: «alcuni colleghi maschi osservavano i miei dreadlocks ridacchiando. In seguito, ho scoperto che hanno pubblicato diverse foto su Instagram con la faccia dipinta di nero e una parrucca rasta, per prendersi gioco di me». Un’altra ha ricordato quando aveva le treccine box braids e un collega le ha detto che erano «non professionali e inadeguate per il luogo di lavoro».

Con l’hashtag #BlackHairIsProfessional molte altre donne hanno contribuito a diffondere il dibattito su LinkedIn. L’attivista Shata Diallo ha scritto: «fino a qualche anno fa mi affidavo al tiraggio chimico, un trattamento che stira i capelli in modo irreversibile. Interrompere per sempre questa pratica è stato per me un momento identitario, di accettazione e affermazione». La giovane scrittrice Sade Green, ricordando il momento in cui è apparsa in un’intervista televisiva con i capelli al naturale, ha dichiarato che «si mostrerà sempre così, come la più autentica versione nera di sé stessa».

Perché nessuna donna debba sentirsi obbligata a cambiare i propri capelli per il riconoscimento della sua professionalità, le aziende possono fare molto per come investire in programmi di formazione e consulenza su queste forme di oppressione e marginalizzazione, favorire un ambiente aperto all’ascolto in cui le vittime di discriminazione possano parlare liberamente, promuovere la creazione di una visione comune tra colleghi e coltivare l’empatia tramite la comprensione delle esperienze personali.

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