Diritti

Christelle, Amina, Aissatou: sopravvissute, rifugiate, sorelle

Tra vulnerabilità, autodeterminazione e coraggio, le storie di 3 donne che sono fuggite dai loro Paesi nell’Africa Subsahariana, verso la rotta mediterranea. Alla ricerca di una nuova vita
Credit: EPA/Paolo Aguilar
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20 marzo 2023 Aggiornato alle 10:00

«Sei obbligata a stare con un uomo anche se non vuoi, non c’è altra scelta. Lì nessuno ti dà niente per niente». Christelle, 18 anni, inizia così il suo racconto della Libia. Ci ha passato quasi 2 anni dopo aver lasciato la Costa d’Avorio per sfuggire a un matrimonio forzato. «La mia famiglia aveva scelto un uomo che non volevo, non so esattamente la sua età. A me sembrava così vecchio. Non volevo sposarmi e ho deciso di partire».

Così vuole il diritto consuetudinario in molte comunità rurali dell’Africa Subsahariana: non appena il corpo lo permette, la donna è chiamata a contribuire all’economia familiare. Un accordo economico, piuttosto che sentimentale, sancisce il suo valore materiale. La famiglia (di solito il padre) si accorda con la quella del futuro sposo relativamente alla dote da versare in cambio della promessa di appartenenza, obbedienza e sottomissione della donna. E così, la somma di denaro pagata diventa il ritorno di investimento della famiglia, che si è fatta carico di provvedere alla ragazza fino alla pubertà. Che questa poi possa non essere d’accordo con la transazione di cui è oggetto, non è contemplato.

Eppure Christelle vuole essere padrona del suo cammino, scegliere il suo compagno se avrà voglia di sposarsi. Quando decide di partire, non ha molto con sé. Il denaro che ha da parte è sufficiente solo per pagare i trafficanti fino alla Libia, ma se l’è fatto bastare. Tutto pur di andare via.

In 2 mesi Christelle attraversa il Mali, il Niger, fino ad arrivare alla frontiera con la Libia. «Ci hanno portato in macchina fino al deserto, poi abbiamo dovuto proseguire a piedi», ha raccontato a La Svolta. La frontiera sud della Libia, al confine con Niger e Ciad, è un’immensa distesa di sabbia, uno dei punti di accesso al Paese nordafricano scelto dai trafficanti di migranti, verso la rotta mediterranea. Sempre più spesso, però, questi decidono di non corrono il rischio di trasportare la loro “merce” umana in questo tratto di deserto, a causa delle numerose truppe governative. Lasciano i migranti attraversare la frontiera a piedi, spesso costringendoli a camminare per giorni, per poi recuperarli con pick-up o camion in aree meno controllate del deserto libico, oltre i confini.

«Siamo rimasti 7 giorni nel deserto. I primi giorni ci hanno portato acqua e cibo e ci hanno indicato in che direzione camminare. Poi per 3 giorni nessuno [dei trafficanti] è venuto, siamo rimasti senza cibo e acqua. C’erano altre donne con me, con dei bambini piccoli. È stato terribile, non avevamo più forze. Pensavo di morire», racconta Amina. Alla fine, sopravvive e riesce a arrivare a Tripoli ma la libertà che cerca è ancora lontana. In un Paese in cui Nazioni Unite e Ong denunciano continuamente violazioni dei diritti umani ai danni dei e delle migranti, il fatto di essere una donna sola aumenta il rischio di essere oggetto di ogni tipo di abuso, sfruttamento e violenza.

«Sono sconvolta dalle molteplici segnalazioni che ho ricevuto di trattamenti profondamente discriminatori e disumanizzanti subiti da donne e bambini non di nazionalità libica, nonché di livelli orribili di tortura, violenza sessuale, rapimento a scopo di riscatto, detenzione, traffico di persone, lavoro forzato e uccisioni» ha commentato Reem Alsalem, Un Special Rapporteur per la violenza contro le donne, dopo la sua ultima visita in Libia a dicembre.

Christelle, come molte delle sue compagne di viaggio, capisce che in un mondo dominato da uomini armati lei è merce preziosa: una giovane donna subsahariana sola, in Libia, diventa facilmente schiava, feticcio, vittima che nessuno reclamerà. L’unico modo per trovare sicurezza è cercare la protezione di un uomo. Il suo corpo è la sua sola risorsa. Christelle lo sa, è il prezzo da pagare per sopravvivere nell’inferno libico.

«Alcune ragazze rimangono incinte e vengono abbandonate. Bisogna stare attente. A me non è andata male. Ho incontrato un mio connazionale, mi ha permesso di vivere a casa sua (mentre racimolavo i soldi per pagarmi la traversata del mare), mi ha protetta e io mi sono presa cura di lui».

Christelle è stata risparmiata dall’orrore dei centri di detenzione libici, in cui migliaia di persone straniere, per il solo fatto di essere migranti, vengono rinchiuse per diventare oggetto di sistematiche estorsioni, violenze, abusi e uccisioni, ampiamente documentate da agenzie internazionali e Ong.

Amina, invece, in uno di quei centri ci è finita con le sue 2 figlie, Therese e Alima, pochi giorni dopo essere arrivate in Libia: 40 anni, rughe troppo profonde per la sua età e uno sguardo triste e intenso. «Sono scappata dal Cameroon portandole con me. Che alternative avevo? Mio marito e la sua famiglia avevano già deciso che le ragazze dovevano sposarsi presto, avevano già concordato a chi darle in moglie. Io mi sono opposta, ma come potevo proteggerle? Non avevo risorse e nessuno della mia famiglia che potesse aiutarci».

Ultima di 15 figli, Amina ha dovuto accettare un matrimonio combinato quando era poco più che diciottenne. «Mio padre era malato, mia madre quasi cieca. La dote del mio matrimonio era l’unico mezzo di sostentamento che avevano. Ho accettato quel matrimonio per il loro bene, ma non voglio che succeda lo stesso alle mie figlie. Voglio che possano studiare e fare le loro scelte. Ho un altro figlio, un maschio, che ho dovuto lasciare in Cameroon». Gli occhi le si riempiono di lacrime, la voce trema. «La famiglia di mio marito se ne prende cura, lo faranno studiare. Lui, almeno, potrà scegliere. Spero solo di rivederlo presto».

Anche per lei e le sue figlie la Libia diventa presto un buco nero. Vendute dai trafficanti che le avevano portate nel Paese a un gruppo armato, Amina e le 2 ragazze si ritrovano in un centro di detenzione informale (non gestito dal Governo libico, ndr) in un’area desertica. Per quasi un mese vengono tenute in cattività in uno stanzone malsano; sentono le urla degli uomini segregati in un’altra stanza a cui viene estorto il denaro per il riscatto con continue torture.

I carcerieri fanno circolare un telefono con cui chiamare qualcuno a cui chiedere i soldi del riscatto. Alle donne viene data anche un’altra possibilità: «Li chiamano contrats de mariage (contratti di matrimonio) - spiega Amina a La Svolta - Uomini che vivono in Libia, anche africani (subsahariani, ndr) come noi, vengono nella prigione e propongono alle donne di pagare il riscatto per liberarle. Da quel momento, la donna che accetta dovrà vivere in casa dell’uomo che l’ha liberata, dormire con lui e prendersi cura della casa finché il debito non sarà estinto». Da una prigione all’altra. Ma per chi non ha nessuno a cui chiedere aiuto, il contratto diventa l’unica possibilità di uscire dal centro di detenzione.

La scelta per una migrante è tra gli abusi, gli stupri e una possibile morte nel carcere o una prigionia più “soft”, in cui il carceriere, uno solo, potrebbe rivelarsi anche gentile e poco esigente.

Amina non cede, riesce a contattare un suo parente e a farsi mandare i soldi per il riscatto per sé e le ragazze. Qualche mese dopo riescono a imbarcarsi su un gommone stracarico che in piena notte lascia le coste libiche per attraversare il Mediterraneo verso l’Europa.

Su quel gommone viaggia anche Aissatou, 32 anni, trecce colorate che spiccano tra la massa umana compressa e agitata al centro dell’imbarcazione alla deriva. Sorride quando vede i soccorritori, abbraccia le altre donne accanto a lei, con cui fino a pochi minuti prima chiedeva a Dio di non lasciarle morire. Tra loro, ci sono Amina, Therese e Alima: le chiama tutte sorelle.

Che provengano dall’Africa orientale o occidentale, la maggior parte delle donne che percorrono le rotte migratorie verso l’Europa si aggrappano a un’idea di sorellanza che trascende l’appartenenza linguistica, culturale, religiosa oltre che di sangue, e che diventa quasi incomprensibile per chi è estraneo a all’esperienza della migrazione. Si diventa sorelle quando si viaggia stipate su camion clandestini che attraversano le frontiere, quando si condivide una cella in un centro di detenzione, quando ci si aiuta a trovare un lavoro poco pericoloso in Algeria o in Libia per guadagnare i soldi per proseguire il viaggio; quando si rischia di morire attraversando il deserto e il mare.

In questa rotta, per molte, la sorellanza significa sopravvivenza. Come per Aissatou, fuggita dalla violenza domestica di un marito i cui abusi le hanno causato 2 aborti e un numero di fratture di cui ha perso il conto. «Dopo l’ultima volta che sono finita in ospedale per le botte di mio marito, la mia migliore amica mi ha portato Evelyne, la mia bambina (di 6 mesi) e mi ha convinto ad andarmene. Mi ha detto che se fossi rimasta, sarei morta. Aveva ragione».

Aissatou inizia così il suo viaggio attraverso la Nigeria, il Niger, l’Algeria, fino alla Libia. Chiede aiuto a sua madre, che le manda quello che ha. Il resto del viaggio lo paga lavorando dove e come può, in ogni tappa, con sua figlia sempre accanto. Fino alla traversata del deserto tra il Niger e l’Algeria. «Evelyne si è ammalata, non respirava bene, non mangiava e non avevo niente con me, nessun medicinale. Eravamo nel deserto da giorni, non sapevo come curarla. È così che l’ho persa. Ho dovuto lasciare il suo corpo nel deserto». Straziata, lacerata, Aissatou va avanti.

«Avevo trovato lavoro in un ristorante in Algeria - racconta a La Svolta - Una sera, uscendo dal ristorante, degli uomini mi hanno rapita, mi hanno rinchiusa in una stanza buia con altre donne, volevano che pagassimo un riscatto. Non avevo niente con cui pagarli e nessuno a cui chiedere. Mi hanno violentato, più volte. Dopo giorni, sono riuscita a scappare rompendo una finestrella». Con l’aiuto di altri migranti, Aissatou riesce a lasciare l’Algeria e ad arrivare a Tripoli, in Libia. «Ho incontrato una “sorella” della mia regione. Vive a Tripoli con suo marito, mi ha salvato la vita. Mi ha accolta in casa sua, mi ha curata, protetta. E alla fine mi ha pagato il viaggio in mare (verso l’Europa, ndr)».

Aissatou, Amina, Therese, Alima e Christelle sono tra le oltre 105.000 persone arrivate sulle coste italiane nel 2022 attraverso il Mediterraneo, la rotta migratoria più letale. Sono quasi 19.000 le persone che, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, hanno perso la vita nel tentativo di attraversa il Mediterraneo centrale dal 2014 a oggi. Stime conservative: quante di loro fossero donne, ragazze o bambine rimane ignoto.

La narrazione mainstream di questa rotta ci ha abituato a immagini che rappresentano una migrazione prevalentemente maschile. La presenza di donne trova molto più spazio negli appelli ai soccorsi che nella rappresentazione collettiva. Non è sicuramente un caso che a intraprendere questo viaggio dall’Africa Subsahariana alle coste europee, siano prevalentemente uomini sempre più giovani. L’insicurezza della rotta, i continui pericoli di imprigionamento, sfruttamento, abusi, violenze, torture lungo tutto il percorso aumentano per le donne che, ancor più se sole, sono esposte anche ai rischi di violenza di genere e tratta.

Tuttavia la migrazione forzata lungo questa rotta non riguarda solo gli uomini. I dati Unhcr indicano che, se tra 2021 e 2022 le donne hanno rappresentato circa il 7% del totale degli arrivi ogni anno via mare, tra gennaio e febbraio 2023 le donne sono state il 14% delle quasi 12.000 persone sbarcate in Italia, ossia oltre 1.600 in 2 mesi, provenienti maggiormente da Costa d’Avorio, Guinea, Tunisia, Siria ed Eritrea.

I motivi che spingono queste donne a lasciare il loro Paese di origine sono spesso le stesse dei loro connazionali uomini: povertà estrema, scarsità di servizi di base come istruzione e cure mediche, corruzione e assenza di prospettive lavorative, ma anche persecuzioni, violenze e condizioni ambientali sempre più ostili alle attività di sostentamento.

Eppure molte delle donne migranti come Aissatou, Amina e Christelle raccontano anche storie di determinazione e di autodeterminazione, di scelte che si ribellano alle tradizioni e consuetudini patriarcali e all’accettazione della violenza di genere come status quo, pur nella consapevolezza dei rischi legati alla propria condizione di vulnerabilità, in quanto donne sole. Donne migranti che, in fondo, cercano la sicurezza di poter vivere come vogliono. Donne che si alleano per proteggersi durante il viaggio, che nella sorellanza trovano la sopravvivenza.

Il viaggio per Aissatou, Amina, Therese, Alima e Christelle non è ancora finito. Arrivate in Italia, che vogliano rimanerci o proseguire la rotta verso altri Paesi, stanno già facendo i conti con politiche ingiuste e discriminatorie, con un sistema di accoglienza fallace e insufficiente, con burocrazie incancrenite, con la diffidenza, con i retaggi coloniali negli sguardi viscidi, con le discriminazioni e il razzismo invisibili a chi non vuol vedere.

Ancora una volta, sono chiamate a contare su sé stesse per costruirsi una nuova vita: sopravvissute, rifugiate, sorelle.

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