Diritti

Strip (tease) please

Com’era l’8 marzo di trent’anni fa? Qualcosa è cambiato, da allora, ma sembra che ci sia ancora tanto da fare. Le ragazze e le donne che scenderanno in piazza avranno un lessico davvero inclusivo da sbandierare?
Credit: cottonbro studio
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8 marzo 2023 Aggiornato alle 06:30

“Prof è lottomarzo, andiamo in manifestazione”. E poi si finiva al bar. Accadeva 30 anni fa o poco più: l’8 marzo era una mimosa offerta dagli ambulanti per le strade di Milano, era una scusa per saltare il liceo, era un ragazzo che ti regalava un biglietto con scritto “auguri”, erano gruppi di donne sbronze che infilavano 5.000 lire nelle mutande dei californian dream men di provincia. Era chiamata festa, no? E allora via, si andava a divertirsi in strada o nei night, dove ti pareva.

Immaginiamoli, questi anni di fine ‘80, inizio ‘90. Le teenager avevano le boy band, il girl power era solo una canzoncina delle Spice, il femminismo una parola assopita dopo conquiste che avevano sfiancato le donne nei ‘70. Nessun social offriva role model né slogan sull’empowerment da girare su Instagram, la Terra sembrava ancora un luogo ospitale e si era così ingenui da poter confondere Tik Tok con i Tic Tac. La famiglia era chiusa in un Mulino Bianco, la politica era un giornalino satirico che si chiamava romanticamente Cuore, che capivamo solo a metà.

A pensare a quanti 8 marzo sono passati da allora, a quanto poco senso veniva messo dentro le mutande di quegli spogliarellisti così come in quella data, quasi ci si commuove. Quelle ragazze ignoravano la maggior parte degli ostacoli di genere che avrebbero trovato negli anni a venire, senza nemmeno la consapevolezza di viverli. Nessuno aveva ancora trovato gli hashtag giusti per avvisarle, nessun #metoo si profilava ai loro orizzonti, il gender “gap” era una marca d’abbigliamento e il 25 novembre era solo un mese a Natale.

Si vivevano le molestie, la fatica, gli sgambetti, il pregiudizio nel privato delle proprie vite, famiglie, scuole, università, nel centro come nelle periferie, nelle città e nelle province, nei futuri uffici e con i futuri compagni, subendo tutto silenziosamente. Perché quando non dai parole a qualcosa, fatalmente questo qualcosa non esiste.

Trent’anni dopo, abbiamo trovato le parole. Anzi. Il dizionario si è riempito di sigle, acronimi, di diversità, accoglienza, inclusione, umanità. Se dai un nome a qualcosa, finalmente quello che accade esiste.

E il bello è che scoprendo cosa non andava, abbiamo anche scoperto quello che di noi andava. Una presa di coscienza collettiva che ha spostato il limite sempre più in là, facendoci toccare il cielo a bordo di una stazione aerospaziale così come alcuni palazzi alti del potere. Bello. Siamo state brave. Alcune di noi davvero top. Però… eh sì, un epperò c’è.

Ho come l’impressione, ma magari mi sbaglio, che le parole si siano trovate parzialmente. Non è che - la butto lì - spesso inventiamo vocabolari elitari che definiscono le trappole subite dalle donne con percorsi simili, in genere wasp, in genere con le stesse condizioni di partenza, quasi sempre privilegiate? Non è che, in fin dei conti, ci parliamo sempre un po’ addosso? Problematizziamo di più la questione del soffitto di cristallo che il dramma di chi sta sempre a lavorare nello scantinato?

Siamo sicure di aver trovato le parole giuste anche per verbalizzare gli ostacoli di chi non ha cominciato sulla nostra stessa linea di partenza della vita? Il megafono che offriamo ogni giorno alla difesa dei diritti civili vale, nel dettaglio e non solo sul piano teorico, anche per la sconosciuta che siede accanto a noi sul tram? Le giovani ragazze che oggi scenderanno in piazza avranno un lessico davvero inclusivo da sbandierare? Speriamo. Però proviamo a entrare nel concreto con un esempio.

Su chi impatterà lo sciopero dei mezzi pubblici proclamato oggi in tutta Italia per protestare genericamente “contro la condizione della donna”? Vediamo: non sull’impiegata che si può giocare lo smart working, non sull’universitaria che si prende un monopattino in sharing, non certo sull’avvocatessa che chiama un tassì, se lo trova.

Impatterà, a occhio, sulle migliaia di lavoratrici che si occupano di servizi basici alla persona: colf, tate, badanti, infermiere. Ovvero la forza lavoro più debole, quella che non può permettersi di perdere una giornata di stipendio, quella che sui mezzi corre per sedersi perché sfinita, quella a cui le lavoratrici privilegiate delegano (spesso in nero) la sopravvivenza della loro vita domestica. Le stesse fondamentali, preziosissime persone che vengono richieste - con messaggi a dir poco picareschi - sui siti di genitori disperati alla ricerca di baby sitter.

Insomma, il lessico è andato avanti, le consapevolezze pure, ma sembra che ci sia ancora tanto da fare. Come diceva Ligabue? Ho perso le parole, eppure erano qui un attimo fa… Buon 8 marzo a tutt*!

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