Ambiente

Gli organismi di certificazione ambientale fanno greenwashing?

Secondo un’inchiesta del Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi sì. Favorendo deforestazione, danni all’ecosistema e violazioni dei diritti umani
Credit: freestocks.org
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6 marzo 2023 Aggiornato alle 09:00

Un’inchiesta condotta dal Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (Icij) ha rivelato che gli organismi di certificazione ambientale contribuiscono a favorire la deforestazione e ad alimentare regimi autoritari all’insaputa dei consumatori.

Alcuni prodotti derivanti dal disboscamento illegale di foreste indigene e aree protette vengono infatti bollati come sostenibili e rispettosi dei diritti umani e le aziende usano poi queste certificazioni per pubblicizzarli, anche se la loro filiera produttiva non rispetta né gli standard ambientali, né le leggi sul lavoro e i lavoratori.

Dal 1998 più di 340 aziende certificate nel settore dei prodotti forestali sono state accusate di reati ambientali da comunità locali, gruppi ambientalisti e agenzie governative e circa 50 di queste erano in possesso di certificati di sostenibilità nel momento in cui sono state multate o condannate. Nel 2021, inoltre, le agenzie per la protezione dei consumatori di Regno Unito e Olanda hanno esaminato centinaia di siti web aziendali e stabilito che il 40% delle affermazioni di ecocompatibilità potrebbe essere fuorviante per i consumatori.

Le cosiddette certificazioni di sostenibilità, fornite da enti privati, non sono obbligatorie per legge, ma sono diventate indispensabili per le aziende che producono, utilizzano o commerciano legname, olio di palma e altri prodotti legati alla deforestazione. Le certificazioni Esg assicurano infatti a clienti e investitori che le operazioni e i prodotti delle aziende siano rispettose delle linee guida ambientali, sociali e di governance.

Attribuite sulla base di standard volontari, le certificazioni ambientali sono gestite all’interno di un sistema di autoregolamentazione da parte di organizzazioni come Forest Stewardship Council, il Program for the Endorsement of Forest Certification e la Roundtable on Sustainable Palm Oil. Tra test e ispezioni, il loro mercato vale 200 miliardi di dollari.

L’indagine Deforestation Inc. di ICIJ mostra però i danni che questa pratica di disinformazione portata avanti dalle compagnie di certificazione nei confronti di investitori, clienti e consumatori causa all’intero ecosistema e ad alcuni territori protetti specifici come quelli della Finlandia e della Corea del Sud, ma anche nelle foreste indigene della Columbia Britannica e dell’Amazzonia.

In alcuni Paesi, come denunciato anche da Greenpeace, la questione ambientale si intreccia con quella dei diritti umani. Come documentato dall’inchiesta, la deforestazione infatti provoca anche la violazione dei diritti delle comunità indigene che abitano i terreni disboscati e in alcuni casi alimenta persino regimi autoritari. Il commercio del teak del Myanmar, un legno utilizzato per gli yacht di lusso e per la produzione di mobili pregiati, rappresenta a esempio una fonte di reddito vitale per il regime militare del Paese, che le certificazioni ambientali contribuiscono a finanziare.

L’analisi dell’ICIJ mette in luce anche che gli organismi certificatori sono raramente ritenuti responsabili per aver minimizzato i rischi delle operazioni svolte dai propri clienti. Anzi, il loro mercato è in crescita, come dimostra il caso della multinazionale olandese KPMG che fornisce servizi di valutazione di rischio ambientale a livello internazionale e che, secondo i giornalisti, ha evitato di documentare i danni provocati dalla deforestazione industriale operata dai propri clienti in aree protette.

Nel 2021, KPMG ha annunciato che avrebbe investito più di 1,5 miliardi di dollari per espandere i servizi di consulenza progettati per aiutare i clienti a ridurre i rischi associati al riscaldamento climatico. L’azienda ha anche offerto consulenza sulla sostenibilità al World Wide Fund for Nature, il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, ed è partner fondatrice di un’iniziativa guidata dal Re britannico Carlo III che chiede alle aziende associate di impegnarsi nella conservazione della biodiversità e azzerare le emissioni inquinanti nette entro il 2050.

Nel frattempo, a intervenire su un sistema di autoregolamentazione confuso e sfuggente è la Commissione europea, che sta valutando come agire per contrastare le attività di greenwashing delle aziende, ovvero quelle pratiche di marketing basate su dichiarazioni ambientali fuorvianti.

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