Economia

Africa, il Dragone e Quarto Potere

Un rapporto del think tank Carnegie Endowement for International Peace analizza il comportamento con i media delle società di costruzione delle ferrovie di proprietà della Repubblica Popolare Cinese in Kenya e in Etiopia, scoprendo alcune differenze
Ethiopia opens Chinese-built railway to Djibouti
Ethiopia opens Chinese-built railway to Djibouti Credit: Tiksa Negeri via theguardian.com
Tempo di lettura 5 min lettura
18 marzo 2023 Aggiornato alle 06:30

Nella narrativa prevalente dei Paesi occidentali, la Cina si muove nel sud del mondo alla ricerca di risorse naturali delle quali ha grande bisogno per assecondare il proprio sviluppo, aprire nuovi mercati e in modo più ampio assicurare il proprio dominio sul mondo globalizzato attraverso la Belt and Road Initiative.

Secondo la stessa narrativa, il Dragone cinese basa la propria politica su pochi e chiari pilastri: nessuna interferenza sulle scelte locali, assenza di trasparenza e scarso rispetto delle popolazioni interne, anche a causa di un certo razzismo. I cinesi sono descritti insomma come una sorta di laboriose api autoreferenziali poco inclini a relazionarsi con gli altri e soprattutto a comunicare.

Salvo la necessità di porsi un doveroso interrogativo sul fatto se questa non sia da parte occidentale una proiezione psicologica di quanto fatto dall’Occidente stesso sino a poco più di 50 o 60 anni fa, un rapporto del think tank Carnegie Endowement for International Peace finanziato dalla Fondazione Ford, uscito a fine febbraio 2023, ci spiega che in realtà i cinesi sono di gran lunga più abili rispetto a come tendiamo a descriverli, sapendo adattare le proprie azioni alle esigenze e circostanze di tempo e di luogo anche sotto il profilo della comunicazione.

Il report analizza il comportamento con i media delle società di costruzione delle ferrovie, interamente possedute dalla Repubblica Popolare Cinese in Kenya e in Etiopia, reso ancor più interessante dalla vicinanza geografica dei due Stati che sono confinanti e dal fatto che si tratta di due economie emergenti.

Il rapporto, scritto dalle ricercatrici Hangwell Li e Yuan Wang, rileva che in Etiopia la condotta non è tanto diversa da quella del cliché propagandato dall’Occidente in relazione al relativo silenzio con i media, mentre in Kenya la società cinese lì operante si è impegnata in modo continuo nella comunicazione al fine di salvaguardare la propria immagine e reprimere anche comportamenti del proprio personale laddove non rispettosi della popolazione locale.

A fare la differenza, a opinione delle ricercatrici, è stato il diverso ruolo della stampa e dei mass media nei due Paesi.

In Etiopia infatti, l’azione dei media appare più che altro volta a sostenere le azioni del governo e non aperta a svolgere il ruolo di cane da guardia tanto caro a noi occidentali. Aggiungerei forse anche a causa dello stato di guerra che prima ha interessato l’Etiopia contro l’Eritrea e nei recenti anni il conflitto interno nella regione del Tigray dove da più parti sono state levati allarmi di gravi violazioni dei diritti umani.

In Kenya, probabilmente anche grazie a un passato coloniale inglese che ha condotto i media a ispirarsi ai modelli di comunicazione anglosassone, la stampa è improntata a un maggiore spirito critico e a svolgere un’azione di controllo da vero e proprio quarto potere, quel cane da guardia dell’opinione pubblica come tutti noi amiamo immaginarla e desideriamo che sia. Una stampa non immune da critiche per il sensazionalismo ma anche attenta e costante nel chiedere alle autorità di rendere conto delle scelte operate.

Sin qui il rapporto della Carnegie. Sebbene in questo tipo di analisi, al fine di valutare la maggiori aperture del colosso cinese nel comunicare in Kenya, molti siano i fattori da considerare, come la maggiore o minore presenza di osservatori e di comunità straniere, il livello di istruzione delle popolazioni e il grado di urbanizzazione e lo stesso comportamento che le popolazioni locali hanno nei confronti degli stranieri (sono di questi giorni le manifestazioni dei commercianti keniani dei mercati di Nairobi contro la presenza dei commercianti cinesi che a dire dei primi starebbero spingendo gli stessi alla fame con una politica di prezzi bassissima), appare evidente il ruolo che una stampa libera e professionale svolge a tutela dei cittadini e in modo più ampio nella formazione di un’opinione pubblica attenta alle libertà politiche e al rispetto dei diritti umani.

È opportuno aggiungere che in questi ultimi anni la Cina sta rilevantemente investendo nell’acquisto di mass media in Kenya e che ciò potrebbe portare a una diversa gestione delle informazioni. Forse è solo un rischio teorico e una semplice operazione di soft power da parte cinese volta a contrastare la narrativa occidentale, o forse è un primo segno che il giornalismo d’indagine e da cane da guardia di questa nazione leader dell’Africa orientale potrebbe presto essere un ricordo, o comunque essere annacquato da un giornalismo supino ai desideri del potente.

Un segnale sul quale ragionare, anche al di fuori del Kenya e in generale dell’Africa, per ricordarci che una stampa indipendente e di qualità non è un lusso al quale si può facilmente rinunciare, ma un valore da difendere giorno per giorno se si vuole avere la libertà di potere autonomamente conoscere e valutare quello che accade intorno a noi e magari anche sbagliare, ma farlo per errore proprio e non perché indotti a farlo

Leggi anche
Fossili
di Alessandro Leonardi 2 min lettura
Privacy
di Matteo Ocone 3 min lettura