Culture

Warsan Shire, la poetessa dei migranti

“Nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra”, recita la poesia Home. E anche chi, su quelle barche, non ci è mai salita, non può rimanere indifferente. O non pensare a Cutro
Warsan Shire
Warsan Shire Credit: Amaal Said
Tempo di lettura 3 min lettura
2 marzo 2023 Aggiornato alle 13:00

Il dovere, l’obbligo morale e politico di raccontare. Anche se su quelle barche non sei mai salita, anche se una lama non ha mai rischiato di marchiarti a fuoco, anche se non hai mai sentito gravarti 14 uomini tra le cosce. Se non sei tu a bruciarti i palmi sotto ai treni, a passare giorni e notti nel ventre di un camion, a preferire il carcere perché è più sicuro di una città che arde. A perdere la vita a poche miglia da una costa calabrese dove tuo figlio avrebbe dovuto giocare con la sabbia e non arrivare con i polmoni pieni di carburante, arenato come un relitto.

Nata a Nairobi 35 anni fa da genitori somali migrati a Londra e in fuga dalla guerra civile, la poetessa afrobritannica Warsan Shire non ha mai vissuto in prima persona il dramma dei viaggi della speranza, ma le parole della sua poesia più famosa, Home, sono diventate un simbolo, una chiave di lettura lucida e toccante delle storie dei rifugiati di questo secolo, quelli che varcano le frontiere ai confini del Messico così come le porte dell’Europa. Leggerla fa bene e allo stesso tempo fa male, risveglia le coscienze ma colpisce in pieno petto, e non a caso alcuni suoi versi sono stati citati anche per raccontare la strage del peschereccio affondato il 26 febbraio a Steccato di Cutro, in Calabria. Tragedia in cui hanno perso la vita 67 persone, 14 erano bambini.

“Nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra” scrive Shire, quasi a voler fugare il dubbio che si fa strada nella testa di ogni genitore che vive al di qua del confine, e non ha mai dovuto scegliere tra vita o morte, tra marchio a fuoco o fuga, tra possibilità di salvezza o schiavitù. Le parole della poetessa scuotono dentro più dei freddi bollettini diramati dalle ong (che stimano 26.000 morti in 10 anni nel Mediterraneo) perché danno voce a chi voce non ha e sono un proclama politico.

I versi di Home sono infatti nati da Conversation about home (at a deported centre), una serie di incontri dell’autrice con un gruppo di migranti africani che nel 2006 si erano rifugiati dentro l’edificio dell’ex ambasciata della Somalia a Roma. Il giorno prima del suo arrivo, un ragazzo si era gettato giù dal tetto. «Ho scritto la poesia per loro, per la mia famiglia, per chiunque abbia vissuto il dolore e il trauma in quel modo» ha dichiarato la poetessa.

Conoscere Warsan Shire è facile: sul web le sue letture impazzano ed è considerata una delle voci più influenti dei black british poets e della spoken word poetry. Nel 2015 viene citata dall’attore Benedict Cumberbatch in un video sui rifugiati siriani e nel 2016 viene notata anche dalla superstar Beyoncé, che dopo aver letto il suo primo libro di poesie (Teaching My Mother How to Give Birth) la chiama per partecipare al visual album Lemonade, dove compaiono anche la tennista Serena Williams e la modella Winnie Harlow.

Lo scorso gennaio ha pubblicato la prima raccolta delle sue opere, Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa (Fandango, 16 euro, 149 pagine), in cui dà spazio a temi come l’immigrazione e l’adolescenza, i disturbi alimentari e i conflitti con la fede. “La poesia mi ha salvato la vita” si legge nella sintesi del libro.

Di certo, i suoi versi sanno penetrare nel profondo e hanno il potere di non lasciarci più indifferenti.

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