Ambiente

Climate change: i bonus verdi non funzionano come dovrebbero

PwC e la London Business School hanno analizzato i pacchetti retributivi di 50 aziende che prevedono obiettivi di riduzione di carbonio. Dai dati emerge un forte squilibrio tra gli alti compensi e i lenti progressi climatici
Credit: Alexander Park
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2 marzo 2023 Aggiornato alle 16:00

I dirigenti delle più grandi aziende europee hanno ricevuto bonus “sorprendentemente alti” per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra per il 2022 (Esg – Enviromental sustainability goals). C’è un unico problema: il loro impegno ha contribuito pochissimo ad arginare la crisi climatica e il riscaldamento globale.

Lo rivela l’ultimo rapporto della società di consulenza PwC e della London Business School (Lbs): i 2 enti hanno analizzato i pacchetti retributivi di 50 delle maggiori aziende del continente che includono, in qualche forma, obiettivi di riduzione di carbonio.

Dai risultati è emerso che i target per ottenere i “bonus verdi” sono molto semplici da raggiungere e hanno un impatto limitato. Secondo i dati del 2022, la metà dei premi previsti dalle società quotate in borsa nell’Eurozona (Stoxx Europe 50) è stata pagata al 100% e, in generale, la media è dell’86%.

«I livelli dei bonus non sembrano coerenti con i lenti progressi che stiamo facendo sul cambiamento climatico», ha affermato Tom Gosling, membro esecutivo del Leadership Institute della Lbs, che per 20 anni ha lavorato come consulente dei consigli di amministrazione. Il rischio è che questo meccanismo inneschi solo «una retribuzione maggiore» per i dirigenti e «non più azioni per il clima».

Tra le aziende analizzate dal rapporto c’è anche Shell: gli obiettivi sulla transizione energetica coprono il 10% del suo piano di investimenti a lungo termine. Nel 2021, la società ha assegnato al suo amministratore delegato, Ben van Beurden, e alla sua ex direttrice finanziaria, Jessica Uhl, bonus del 180%, per aver raggiunto gli obiettivi di decarbonizzazione, aver avviato progetti green e averne incentivati altri “per carburanti a basse emissioni di CO2”. La cifra massima prevista dal suo Ltpi (Long term investment plan) per la transizione ecologica ammontava al 200%.

Shell si è impegnata a ridurre i gas serra causati dai suoi prodotti del 20% entro il 2030 e del 45% entro il 2035, ma non a completare la decarbonizzazione: ciò richiederebbe tagli maggiori alla quantità di petrolio e gas estratte ogni anno.

In realtà sono poche le aziende che mirano ad azzerare i loro gas serra tra il 2040 e il 2050, per limitare l’aumento delle temperature a 1,5 gradi dall’era preindustriale. L’introduzione di bonus ecologici per i dirigenti è una strategia molto recente: risale al 2018, quando i grandi gruppi d’investimento, come Amundi e Cevian, hanno iniziato a insistere sulle metriche ambientali, sociali e di governance delle imprese, alle quali decidevano di legarsi economicamente.

Per Harlan Zimmerman, Senior Partner di Cevian Capital, i target avrebbero dovuto essere misurabili e trasparenti, in modo che «l’azienda potesse dimostrare agli investitori e alle altre parti interessate che le sue ambizioni ambientali fossero sufficientemente alte«, pena «l’accusa di greenwashing» e la perdita «del sostegno degli azionisti per i loro piani retributivi».

Questa tattica, però, non ha funzionato: le quantità di CO2 globali hanno raggiunto i 37,5 miliardi di tonnellate nel 2022, un livello record secondo il Global Carbon Project. Anche le emissioni di metano hanno raggiunto livelli altissimi lo scorso anno, mentre le temperature hanno già subito un aumento di almeno 1,1 gradi.

L’inclusione di obiettivi correlati al clima nella retribuzione «non è sempre così semplice come sembra – ha spiegato Phillippa O’Connor, leader Esg della forza lavoro a PwC - La sfida ora deve essere quella di farlo bene, in modo che gli obiettivi salariali contribuiscano in modo significativo ad aiutare le aziende a raggiungere i loro obiettivi climatici».

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