Diritti

Cosa succede nei Cpr italiani?

I Centri di permanenza per i rimpatri sono attivi dal 2017. Ma le condizioni in cui le persone sono costrette a vivere sono spesso al limite
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13 marzo 2023 Aggiornato alle 09:00

In Italia sono attualmente attivi 10 Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), per un totale di 1.100 posti disponibili. In questi luoghi sono trattenuti i cittadini stranieri in attesa di espulsione dal territorio italiano, ma secondo la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (Cild) per questi centri non esiste un ordinamento o un regolamento e l’esercizio dei diritti delle persone trattenute è compromesso.

I migranti irregolari sono trattenuti fino a un massimo di 90 giorni, prorogabili di altri 30 in caso di cittadini di un Paese con cui l’Italia ha sottoscritto accordi di rimpatrio. Il problema è che tali intese scarseggiano e sono spesso inaccessibili: come riporta Asgi(Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), infatti, l’Italia ha firmato finora accordi bilaterali solo con Nigeria, Gambia, Costa d’Avorio e Senegal, sotto forma però di semplici intese tra forze di polizia che impediscono ai cittadini di conoscerne il contenuto.

Eredi dei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), i Cpr si sono costituiti nel 2017 con il decreto-legge dei ministri Marco Minniti e Andrea Orlando. Il progetto iniziale era quello di aprire un Cpr in ogni Regione con lo scopo di aumentare il numero dei rimpatri, ma a oggi sono presenti solo in Puglia, Basilicata, Sicilia, Sardegna, Lazio, Piemonte, Lombardia e Friuli-Venezia Giulia.

Al contempo, la percentuale dei rimpatri dal 2017 al 2021 si è ridotta, passando dal 58,6% al 49,7%, così come il numero dei migranti transitati nei Cpr: erano più di 6mila nel 2019 e sono stati poco più di 5mila nel 2021.

Nonostante la riduzione del numero degli ospiti, la spesa da parte dello Stato cresce. Se tra 2018 e 2021 il costo di gestione dei Cpr è stato di 44 milioni di euro, con la nuova Legge di bilancio il Governo Meloni ha predisposto un incremento di 5,39 milioni di euro per il 2023. Un aumento che, secondo un’analisi di Openpolis, salirà di 14,39 milioni fino al 2024 rispetto alla previsione fatta nel 2022. Eppure, per Cild “la gestione privata di questi centri li rende un vero e proprio business che, in nome della massimizzazione del profitto, comprime ancora di più i servizi che dovrebbero essere offerti alle persone recluse, va ricordato, senza che abbiano commesso alcun reato”.

I Cpr sono definiti luoghi di detenzione amministrativa, ma come denunciano Ong e associazioni, spesso la tutela e la dignità dei trattenuti al loro interno non sono affatto garantite. Secondo Asgi, a esempio, nel centro di Palazzo San Gervasio in provincia di Potenza le condizioni di reclusione dei migranti violano il diritto alla salute fisica e psicologica e il diritto alla difesa viene ostacolato.

Molte delle persone presenti nel Cpr non conoscono infatti la ragione della loro detenzione e il medico della struttura ha ammesso che questo rappresenta per loro un fattore fortemente destabilizzante. Inoltre, fra i trattenuti, isolati fisicamente e privati di assistenza psicologica adeguata, coloro che riportano disturbi comportamentali e problemi psichici fanno uso massiccio di psicofarmaci.

Nell’ultimo mese, nel Cpr di Torino i migranti hanno appiccato vari incendi che hanno portato alla chiusura della struttura per ristrutturazione. L’Assemblea No Cpr di Torino ha scritto in un comunicato che “la protesta è partita per via delle orrende condizioni di detenzione e delle forme di tortura che l’ente gestore ORS Italia, con il sostegno della questura, attuano giornalmente. Da dentro ci raccontano che il cibo è avariato e contiene psicofarmaci, le celle sono fredde, manca acqua calda e le sezioni sono piene di spazzatura. Ci raccontano di una stanza adibita ai pestaggi”.

Appena 24 ore dopo la protesta del 4 e 5 febbraio, anche il Cpr di Milano ha bruciato: i trattenuti hanno dato fuoco ad alcuni materassi rendendo inagibili diversi locali dell’edificio.

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