Futuro

Usa: la Corte Suprema potrebbe rivoluzionare Internet

La controversa questione sull’uso degli algoritmi da parte delle Big Tech è discussa in questi giorni nella causa Gonzales vs. Google. Ma il problema sembra essere la scarsa competenza in materia dei giudici
Credit: Mingwei Lim
Tempo di lettura 5 min lettura
25 febbraio 2023 Aggiornato alle 15:00

Terrorismo e internet sono stati associati più volte in questi ultimi mesi. Ma questa volta non parliamo di attacchi hacker e di malware, ma di qualcosa che potrebbe ribaltare drasticamente le regole di Internet e il funzionamento delle piattaforme. Oppure no.

Ci riferiamo alla causa Gonzales vs. Google che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha iniziato a discutere martedì scorso e, in particolare, nel chiedersi se i giganti della tecnologia possano essere ritenuti legalmente responsabili dei contenuti promossi dai loro algoritmi.

Questione controversa che, nel caso della legislazione americana, viene regolata dallo Statuto Sezione 230 che fa parte del Communications Decency Act del 1996 – quindi agli albori di internet - il quale affermava che per legge i fornitori di servizi informatici non possono essere trattati come gli editori di informazioni create da qualcun altro.

Ma facciamo un piccolo passo indietro per capire meglio l’evento da cui ha origine tutto.

Il fatto risale al 2015 quando a Parigi uomini armati affiliati all’organizzazione terroristica Isis uccisero 130 persone in sei attacchi coordinati in tutta la capitale francese. Nohemi Gonzalez, una studentessa di 23 anni, fu l’unica americana a morire negli attacchi. In seguito, la sua famiglia citò in giudizio Google, proprietaria di YouTube, sostenendo che l’algoritmo di raccomandazione della piattaforma video promuoveva contenuti del gruppo terroristico, nello specifico dei video di reclutamento dell’Isis.

La posta in gioco è alta perché riguarda una questione che è stata fondamentale per l’ascesa delle Big Tech: le corporation della Silicon Valley dovrebbero essere legalmente responsabili dei contenuti che i loro utenti pubblicano?

Finora hanno eluso la responsabilità, ma una sentenza contro YouTube potrebbe esporre tutte le piattaforme, grandi e piccole, a potenziali controversie sui contenuti degli utenti. In molti pensano che la legge del 1996 debba essere riformata in quanto incapace di regolare il web delle piattaforme social.

Tornando alla discussione in aula, l’accusa sostiene che gli algoritmi di raccomandazione vadano oltre la semplice decisione di quali contenuti visualizzare, come fanno gli “strumenti neutri” come i motori di ricerca, ma che invece promuovano attivamente i contenuti.

E quindi, come si legge nella documentazione rilasciata al tribunale, “si presume che gli imputati (quindi Google/YouTube) abbiano raccomandato agli utenti di visualizzare video creati dall’Isis che hanno svolto un ruolo chiave nel reclutamento di combattenti per unirsi all’organizzazione criminale”.

La difesa si appella alla protezione della Sezione 230, che ritiene essere lo statuto fondamentale per i diritti umani e per la libertà di espressione a livello globale, ovvero il motivo per cui è ancora possibile oggi trovare informazioni cruciali online su qualsiasi argomento, anche controverso come l’aborto, le azioni militari, le uccisioni della polizia e altro ancora. Google sostiene che questa legge la protegga dalla responsabilità legale per i video emersi dai suoi algoritmi di raccomandazione e che tale immunità è essenziale per la capacità delle società tecnologiche di fornire contenuti utili e sicuri ai propri utenti.

La questione è così grande e cruciale che negli States tutti hanno espresso un’opinione e la stragrande maggioranza è d’accordo che il governo americano abbia adottato un approccio ampiamente laissez-faire alla regolamentazione tecnologica negli ultimi tre decenni e che sia necessaria riformare la Sezione 230.

Sono d’accordo sia i conservatori che i democratici, con motivazioni diverse, anche nelle persone di Donald Trump e del Presidente Joe Biden. E addirittura anche Mark Zuckerberg, Ceo di Meta ritiene che «potrebbe aver senso che vi sia più responsabilità per alcuni contenuti».

Ecco quindi le tre soluzioni che possono emergere dalla causa Gonzales vs. Google. Primo: la Corte si schiera con Google e dichiara che la Sezione 230 va bene così com’è e tutto rimane uguale. Oppure, la più alta Corte degli Usa accoglie le motivazioni dell’accusa, decide che lo Statuto nel 1996 non sia più in grado di regolare la materia e inizia per le Big Tech una serie di cause legali non solo per i contenuti raccomandati dai loro algoritmi, ma anche per qualsiasi cosa gli utenti dicano sui loro siti.

C’è anche una terza via in cui la Corte adatta lo Statuto in un modo specifico che potrebbe richiedere alle società tecnologiche di affrontare alcune responsabilità aggiuntive in circostanze specifiche.

Questo scenario è simile a ciò che è accaduto nel 2018 in cui una controversa modifica alla Sezione 230 ha reso le piattaforme responsabili dei contenuti di terze parti legati al traffico sessuale: in questo caso si estenderebbe anche ai contenuti relativi al terrorismo.

Ma in realtà il vero problema non riguarda tanto la questione in sé, quanto la scarsa preparazione in materia della Corte Suprema.

In questi giorni – racconta il Washington Post in un suo articolo del 21 febbraio - la Corte Suprema si è rivelata molto cauta, ma anche poco competente in materia, mettendo subito le mani avanti: «Siamo un tribunale. Non sappiamo molto di queste cose. Non siamo certo i nove più grandi esperti su Internet», ha detto il giudice della Corte Suprema Elena Kagan a cui sono succeduti una serie di pareri che mettono in parallelo le raccomandazioni dell’algoritmo con i consigli di un libraio.

Ma in generale i giudici, che storicamente sono sempre stati duri e critici nei confronti delle Internet Corporation, sembrano riluttanti durante le discussioni dei giorni scorsi a cambiare la Sezione 230.

Parallelamente questa settimana la Corte Suprema discuterà la causa chiamata Twitter vs. Taamneh, un altro caso promosso dalla famiglia di una vittima di un attacco terroristico in cui si accusano le società di social media (quindi anche Facebook e YouTube) di essere responsabili di aver consentito allo Stato islamico di utilizzare le loro piattaforme. L’esito di questo caso potrebbe essere rilevante per la causa di Google, anche se il timore è che la discussione andrà molto per le lunghe.

Leggi anche
3 stati Usa hanno citato Google per pratiche ingannevoli
web
di Caterina Tarquini 3 min lettura