Diritti

Youtube finisce in tribunale per gli attacchi terroristici del 2015

I genitori di una studentessa uccisa in un ristorante durante gli attentati hanno fatto causa alla piattaforma di proprietà di Google per aver promosso video creati dai combattenti dell’ISIS
Credit: Dasha Yukhymyuk
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
22 febbraio 2023 Aggiornato alle 21:00

Nohemi Gonzalez era una studentessa di 23 anni della California State University di Long Beach, sulla costa del Pacifico degli Stati Uniti d’America.

Nel 2015 stava frequentando un semestre all’estero, allo Strate College of Design di Sévres, in Francia. Durante gli attentati del 13 novembre a Parigi, fu l’unica vittima americana tra le 130 totali, di 26 nazionalità diverse: venne uccisa in uno dei ristoranti colpiti dal commando armato collegato all’autoproclamato Stato Islamico.

Un anno dopo la sua morte, i genitori citarono in giudizio Twitter, Facebook e Google per aver consentito consapevolmente ai membri dell’ISIS di utilizzare le loro piattaforme. Nel 2021 la loro causa era stata respinta da un tribunale minore che aveva tirato in ballo la legge federale Section 230 che protegge le aziende di Internet dalla responsabilità per i contenuti pubblicati dai loro utenti.

Ma questa settimana la famiglia Gonzalez ha portato Youtube, di proprietà di Google, di fronte alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, sostenendo che la piattaforma di video avrebbe avuto un ruolo nella morte della figlia, consentendo all’ISIS di pubblicare e promuovere video.

Secondo i Gonzalez, le raccomandazioni mirate di YouTube hanno violato una legge antiterrorismo degli Stati Uniti, contribuendo a radicalizzare gli spettatori, a diffondere il messaggio dello Stato Islamico, che rivendicò la responsabilità degli attacchi di Parigi, e a reclutare combattenti jihadisti.

Attualmente, la Section 230 del Communications Decency Act del 1996 protegge i siti web da accuse penali per i contenuti che veicolano: la norma sostiene che non possano essere trattati come gli editori e i diffusori di contenuti di terze parti, e dunque non debbano essere ritenuti legalmente responsabili delle informazioni che veicolano, anche per via della portata dei materiali caricati.

Secondo Lisa Blatt, la legale che rappresenta Google, le raccomandazioni sono solo un modo per organizzare tutte queste informazioni: «Gli utenti di YouTube guardano un miliardo di ore di video al giorno e caricano 500 ore di video al minuto».

La norma, insomma, protegge i siti web da azioni legali se un utente pubblica qualcosa di illegale, ed è considerata la legge di tutela più importante dei discorsi su Internet.

La Corte Suprema degli Stati Uniti, SCOTUS, è la più alta del Paese e ha la capacità di modificare le leggi in tutti gli Stati degli Usa. La sentenza “Gonzalez v. Google”, attesa per la fine di giugno, potrebbe cambiare radicalmente il modo in cui l’intero Paese considera la responsabilità delle piattaforme di social media, che potrebbero perdere l’ampia immunità di cui godono: l’esito di questa udienza determinerà se le piattaforme tecnologiche e le società di social media potranno essere citate in giudizio per aver consigliato contenuti ai loro utenti o per aver sostenuto atti di terrorismo internazionale ospitando contenuti terroristici.

La Section 230 è criticata da entrambi gli schieramenti politici: molti funzionari repubblicani sostengono che dia alle piattaforme la licenza di censurare i punti di vista conservatori, mentre i democratici, tra cui il Presidente Joe Biden, che ha proposto di revocarla completamente, ritengono che impedisca ai giganti tecnologici di essere ritenuti responsabili per la diffusione di disinformazione e di discorsi di odio.

Negli ultimi anni, alcuni membri del Congresso hanno spinto per una modifica della norma, ma tutti i tentativi si sono in gran parte arenati, lasciando alla Corte Suprema la responsabilità di cambiare o lasciare invariata la regolamentazione dei servizi digitali negli Stati Uniti.

Come riporta la Cnn, Google e altre aziende tecnologiche sostengono che la modifica della Section 230 aumenterebbe i rischi legali associati alla classificazione e alla cura dei contenuti online: in uno scenario del genere, i siti web cercherebbero di andare sul sicuro rimuovendo molti più contenuti del necessario, oppure rinunciando del tutto alla moderazione dei contenuti e consentendo la presenza di materiale ancora più dannoso sulle loro piattaforme. Inoltre, scrive Reuters, una vittoria dei querelanti potrebbe provocare un’ondata di cause contro le piattaforme e sconvolgere il funzionamento di Internet.

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