Ambiente

Che cos’è l’estrattivismo?

Contesi dal punto di vista geostrategico, i critical raw materials sono fondamentali per costruire le fondamenta di un’economia verde e rinnovabile. Ma cosa significa esattamente “critico”?
Credit: Dominik Vanyi
Tempo di lettura 4 min lettura
17 febbraio 2023 Aggiornato alle 21:00

L’accaparramento di risorse naturali – o “estrattivismo”, per usare un termine giornalistico - è un fenomeno che ci accompagna da millenni e che, almeno nel medio periodo, continueremo ad alimentare.

Secondo uno degli scenari sviluppati dall’Ocse, nel 2060 potremmo arrivare infatti a consumare 167 miliardi di tonnellate di materia vergine. Minerali (metalli e non metalli) e fonti fossili, per la maggior parte.

Tuttavia, ciascuna di questi beni - che sia carbone, oro, rame, cobalto o silicio non importa – è soggetta a una stessa regola: la legge dei rendimenti decrescenti.

I cicli di estrazione delle singole risorse passano infatti da un momento “zero”, in cui picconi e trivelle sono ancora fermi, a un secondo momento “zero”, in cui le scavatrici si fermano.

Nel mezzo, tra i due estremi, c’è il cosiddetto picco di produzione, un vero e proprio spartiacque che segnala che da lì in poi ciò che estrarremo sarà sempre più difficile (per volumi e tecnologia) e quindi progressivamente più costoso. Oppure, come nel caso dei combustibili fossili, non più conveniente anche per altre ragioni, tra le quali il non così improbabile collasso degli ecosistemi.

Tuttavia, chiudere un ciclo estrattivo significa necessariamente intensificarne un altro. Per costruire pannelli solari, turbine eoliche, batterie e infrastrutture energetiche adeguate, servono metalli e minerali in quantità che semplicemente ora non abbiamo.

Stando alle stime contenute in Metals for Clean Energy, studio pubblicato dalla KU Leuven University e commissionato da Eurometaux, rispetto ai consumi attuali e comunque entro il 2050, la transizione energetica in Europa richiederà ogni anno +33% di alluminio, +35% di rame, +3500% di litio, + 100% di nichel, +45% di silicio, +330% di cobalto.

Sotto il velo delle percentuali si sostanzia materia per centinaia di migliaia (a volte milioni) di tonnellate annue.

Tradotto: bisogna stabilizzare e garantire gli approvvigionamenti. Ma come?

La globalizzazione ha reso interdipendenti le economie mondiali. E questo è ancor più vero per molte materie prime critiche, fortemente concentrate in aree estrattive limitate: a esempio, la Cina fornisce il 98% delle forniture di elementi di terre rare dell’Ue, la Turchia il 98% del borato, il Cile il 78% del litio, il Kazakhstan il 71% del fosforo. Il solo Sudafrica, se si parla di metalli come iridio, rodio e rutenio, detiene pressoché la totalità della produzione mondiale.

Non c’è quindi da stupirsi che l’Unione europea, paladina della libera concorrenza, stia tentando di spezzare le vecchie catene di approvvigionamento al mantra “diversificare la supply chain”. Ma ciò significa abbandonare tanto i regimi di monopolio quanto i regimi in generale.

L’invasione russa in Ucraina, i rapporti complessi con Pechino (per non parlare delle tensioni con Taiwan, l’eldorado dei superconduttori) e il riaccendersi degli scontri nella Repubblica Democratica del Congo per il controllo del coltan e del cobalto nel Nord Kivu, confermano a Bruxelles la necessità di perseguire sulla strada decisa nel 2020 con il Piano di azione sulle materie prime critiche: diversificare l’approvvigionamento da fonti primarie e secondarie, migliorando efficienza e circolarità, e promuovendo forniture responsabili a livello mondiale, anche attraverso la ricerca di nuovi partner commerciali.

*Per approfondire leggi il numero 43 di Materia Rinnovabile

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